Sulla STAMPA di oggi, 15/12/2007, a pag.1-41, con il titolo "La bomba dell'Iran: il pericolo persiste", l'opinione di Henry Kissinger.
L’incredibile spettacolo del consigliere per la Sicurezza nazionale di George W. Bush costretto a difendere la politica iraniana del presidente contro il rapporto National Intelligence Estimate (Nie) solleva due questioni centrali: come giudicare adesso la minaccia nucleare posta dall’Iran e quale sia il rapporto delle sedici principali agenzie americane di intelligence con la Casa Bianca e il resto del governo.
Il «Key Judgment», rapporto non coperto, comincia con una affermazione esplosiva: «Riteniamo che nell’autunno 2003 Teheran abbia interrotto il suo programma di armi nucleari». Questa frase è stata interpretata come una sfida alla politica presidenziale di mobilitazione della pressione internazionale contro i presunti programmi nucleari iraniani. Di fatto, però, questa frase era precisata da una nota a piè di pagina, la cui complessa fraseologia offuscava il fatto che la sospensione si applicava in realtà a un solo aspetto (e neppure il più significativo) dell’intero programma: la costruzione di testate nucleari. Questo dettaglio non viene ribadito nel seguito del documento, che continuerà a riferirsi alla sospensione del programma militare in senso generico.
La realtà è che la preoccupazione per le armi atomiche iraniane aveva tre componenti: la produzione di materiale fissile, lo sviluppo di missili e la costruzione di testate nucleari. Nel passato la produzione di materiale fissile era stata trattata come il pericolo di gran lunga preminente, e questa va avanti a ritmo accelerato dal 2006, esattamente come lo sviluppo di missili a gittata sempre più lunga. Quella che pare essere stata sospesa è l’ingegneria mirata alla produzione delle testate.
Secondo il nuovo Rapporto, l’Iran potrebbe essere in grado di produrre uranio arricchito nella quantità sufficiente per un’atomica entro il 2009 e potrebbe costruire più testate tra il 2010 e il 2015.
Questo è di fatto lo stesso arco temporale che suggeriva il Rapporto della National Intelligence del 2005. Quello nuovo non fa una stima del tempo necessario a costruire una testata nucleare, sebbene tratti la disponibilità di materiale fissile come il principale fattore limitante. Se c’è un gap significativo fra questi due processi, sarebbe importante che venisse detto. Invece non ci è stato detto neppure quanto Teheran fosse vicina a sviluppare una testa nucleare nel momento in cui ha sospeso il programma. Infine, il rapporto esprime solo una fiducia «moderata» nel fatto che la sospensione non sia già stata sospesa.
È perciò dubbio che ci siano prove concrete per le parole roboanti del Rapporto e, ancora meno, per le conclusioni tratte da gran parte dei commentatori. Negli ultimi tre anni il dibattito internazionale si è concentrato sugli sforzi iraniani per arricchire l’uranio attraverso le centrifughe, che adesso sono tremila. L’amministrazione Bush ha sostenuto che queste rappresentano un passo decisivo verso l’acquisizione dell’arma nucleare e ha chiesto una politica della massima pressione. Tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno appoggiato la richiesta all’Iran di sospendere il suo programma di arricchimento dell’uranio. L’unica differenza nella posizione dei diversi Paesi stava nell’intensità della pressione e nella volontà di imporre sanzioni.
Il Nie poi evidenzia, senza alterarla, la questione sottostante: a quale punto i Paesi che hanno definito «inaccettabile» il programma nucleare iraniano converranno che occorre passare all’azione? Aspetteranno che l’Iran inizi davvero a produrre le testate atomiche? I nostri servizi segreti presumono di essere in grado di conoscere quella soglia? Ma, a quel punto, ci sarà abbastanza tempo per una contromisura ragionevole? Che cosa succederà delle crescenti scorte di materiale fissile che, secondo il Rapporto, saranno state accumulate? Ci troveremo alla fine con un avversario che sarà d’accordo a bloccare un’ulteriore produzione di materiale fissile ma insisterà per conservare le riserve esistenti come potenziale minaccia?
Enunciando la sua conclusione in termini così categorici - considerati eccessivi anche dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) - il Rapporto Nie rende confusa la linea tra valutazioni e ipotesi. Una lettura alternativa più plausibile darebbe più spazio al contesto regionale in cui si muoveva l’America. Quando, nel febbraio 2003, l’Iran sospendeva il suo programma, l’America aveva già occupato l’Afghanistan e stava per invadere l’Iraq. Entrambi i Paesi confinano con l’Iran. L’America giustificava la sua politica verso l’Iraq con la necessità di eliminare dalla regione le armi di distruzione di massa. Nell’autunno 2003, quando l’Iran si unì volontariamente al Protocollo addizionale al Trattato di non proliferazione nucleare, Saddam era appena stato rovesciato. È irragionevole presumere che gli ayatollah fossero giunti alla conclusione che una autolimitazione era diventata inderogabile?
Nell’autunno 2005 invece l’intervento americano in Iraq dava segni di impantanarsi e diminuiva la prospettiva di estendere l’impresa all’Iran. È dunque possibile che i leader iraniani si siano sentiti liberi di ritornare alla loro precedente politica di dotarsi del nucleare militare, magari anche rafforzata dal desiderio di creare un deterrente alle aspirazioni americane nella regione. Potrebbero anche essere arrivati alla conclusione che, visto che i lavori segreti erano trapelati, sarebbe stato troppo pericoloso avviare un altro programma coperto. Di qui l’enfasi nel sottolineare che si trattava di un programma di energia nucleare civile. In conclusione, se la mia analisi è corretta, avremmo di fronte non una sospensione della bomba atomica iraniana - come sostiene il Nie - ma una sua versione astuta, e dunque più pericolosa, che introdurrà gradualmente le testate quando sarà pronta la produzione di materiale fissile.
Il Rapporto non rifiuta questa teoria. Semplicemente, non la prende neppure in considerazione. E conclude che «le decisioni di Teheran sono guidate da un’analisi costi-benefici piuttosto che da una corsa al riarmo». Ma un’analisi costi-benefici non esclude la corsa al riarmo su base sistematica. Dipende dai criteri sulla cui base vengono determinati sia i costi sia i benefici. Analogamente, proseguendo la logica costi-benefici, il Rapporto conclude che una combinazione di indagine accurata internazionale e garanzie di sicurezza potrebbe «indurre Teheran a estendere l’attuale sospensione al programma di armi nucleari». Questo è un giudizio politico, non un lavoro di intelligence.
Una strategia americana coerente nei confronti dell’Iran non può essere di parte perché andrà attuata dopo che l’amministrazione Bush avrà lasciato la Casa Bianca. Io sostengo da tempo che l’America deve a se stessa un’esplorazione completa della possibilità di normalizzare i suoi rapporti con l’Iran. Non abbiamo bisogno di tranquillizzarci sul pericolo per perseguire un mondo più pacifico. Quello che si richiede è una visione specifica che leghi le rassicurazioni all’Iran sulla sua sicurezza e il rispetto per la sua identità a una politica estera iraniana compatibile con l’attuale ordine in Medio Oriente. E non può neppure mancare un’analisi della strategia da seguire se alla fine l’Iran optasse per l’ideologia contro la riconciliazione.
I servizi di intelligence hanno un ruolo importante nel tracciare questa visione, ma devono riconoscere che quanto più si avventurano nelle congetture politiche, tanto meno autorevole diventa il loro giudizio. Io sono molto preoccupato per la loro tendenza a trasformarsi in una sorta di ramo separato del governo anziché essere parte del ramo esecutivo. Quando gli uomini dell’intelligence si aspettano che il loro lavoro diventi oggetto di un immediato dibattito pubblico, è chiaro che saranno tentati di assumere un ruolo politico surrogato.
L’esecutivo e l’intelligence hanno vissuto un periodo molto difficile. La Casa Bianca è stata accusata di politicizzare i servizi segreti. E questi sono stati incaricati di promuovere i pregiudizi politici istituzionali. Il Rapporto Nie dà un’accelerata a questa controversia, spaventando gli amici e confondendo gli avversari.
Gli uomini dell’intelligence devono ritornare al loro tradizionale anonimato. I decisori politici e il Congresso dovrebbero ancora una volta assumersi la responsabilità dei loro giudizi, senza coinvolgere i servizi nelle loro giustificazioni pubbliche. Definire il giusto equilibrio tra chi usa e chi produce le informazioni di intelligence non è però un compito da fine mandato presidenziale. È invece una delle sfide più urgenti che dovrà affrontare il prossimo Presidente.
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