Raad Abu Saad, un ex baathista che ora combatte contro Al Qaeda insieme agli americani
Testata: Il Foglio Data: 14 dicembre 2007 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «L’ex “resistente” Raad ora sbarra la strada ai terroristi»
Dal FOGLIO del 14 dicembre 2007:
Baghdad, da uno dei nostri inviati. Quattro anni dopo la caduta di Saddam Hussein, otto mesi passati in cella ad Abu Ghraib, Raad Abu Saad, ex ufficiale speciale dell’esercito baathista, è ancora operativo e in forma. Nel 2003 e 2004 ha fatto parte della “resistenza” nazionalista e sunnita contro le forze della Coalizione. “Ci credevo”, dice al Foglio tra i sacchetti di sabbia del Jss, Joint Security Station, a ovest di Baghdad. Offre una sigaretta al “terp”, l’interprete iracheno in divisa americana. Fino a due anni fa, lo avrebbe ammazzato per “collaborazionismo”. Oggi Raad, “tuono” in arabo, è uno dei più fidati collaboratori degli americani nel quartiere di Ghazaliya. E’ uno dei leader della milizia volontaria sunnita che protegge il quartiere. Ha appena finito di partecipare all’incontro settimanale tra i responsabili militari della zona. Americani, iracheni e volontari in una stanza senza finestre, attorno a un tavolo a ferro di cavallo pieno di mele, arance e bottigliette di Gatorade guardano diapositive per fissare le priorità della settimana, aiutati da interpreti in passamontagna. “Quattro mesi fa, quando abbiamo iniziato a operare, su questo outpost piovevano proiettili di mortaio e i colpi dei cecchini. E nel quartiere spadroneggiavano i gruppi armati. I cittadini erano le vittime di al Qaida, l’esercito del Mahdi ma anche della polizia nazionale e dell’esercito iracheno”. Ora gli zarqawisti non possono più entrare nella zona: gli uomini di Raad conoscono le loro facce. Fra sei mesi, come da contratto con le forze della Coalizione, i volontari dovranno essere integrati nei ranghi della polizia, per calmare le ansie del governo centrale a maggioranza sciita che teme il rafforzamento di queste milizie autonome. Il successo dei volontari in alcune zone dell’Iraq ha infastidito l’esecutivo che, secondo Raad, starebbe cercando di fermare il progetto. “Nell’ultima settimana la situazione sul terreno sta peggiorando”. Per l’ex ufficiale si tratta di interferenze politiche, per gli americani di al Qaida che prova a ritornare infilandosi come un cuneo tra esercito regolare iracheno e milizie sunnite. “Non sto dicendo che al Qaida non sia coinvolta, molto probabilmente sta cercando di arruolare qualcuno dei suoi tra i miei uomini”. I documenti sui legami tra al Qaida e Iran Quando parla dei terroristi sunniti, Raad non usa uno schema bianco/nero. “Alcuni membri di al Qaida sono buoni”, dice senza muovere un muscolo del volto. “Quelli che hanno uno scopo distruttivo sono legati all’Iran e al suo interesse a mettere l’Iraq in ginocchio”. Le prove dice di averle perché lui faceva parte della resistenza. “Sono stato in prigione otto mesi ad Abu Ghraib dove ho incontrato persone che me lo hanno confermato. Ho anche documenti sulle connessioni tra al Qaida e Teheran che tirerò fuori al momento buono. Ora preferisco tenerli per me”. “Credevo nella resistenza, sono un ex tenente colonnello dell’esercito iracheno”. Raad era parte di quelle colonne della guerriglia che, con il favore o nell’indifferenza degli iracheni, faceva saltare i blindati dei soldati americani, incendiava con i razzi i loro convogli di rifornimento, li costringeva con i cecchini a tenersi al coperto anche quando erano all’interno delle loro stesse basi. Ma la popolazione, quando sono cominciate le stragi di massa, gli attacchi contro i mercati, ha perso la bussola, non ha più saputo distinguere chi combatteva a suo favore e chi contro. Per Raad ci sono due sole alternative. Quella politica, che consente il dialogo. E quella militare, che lo esclude. “Spesso è necessario combattere e usare la forza. Ma ora siamo in un periodo di prova. Ho parlato personalmente con il generale David Petraeus. Crede veramente nella libertà per il popolo, ha idee su come cambiare l’Iraq: da un paese governato da una sola persona a una democrazia. Ora abbiamo lo stesso obiettivo”. Ci sono persone che rifiutano questa visione – per esempio quelli che stanno con l’Iran, dice – e altre che la sostengono, “come noi”. “Ora, tutte le nostre idee sono cambiate. Quelle della mia famiglia, dei miei vicini, dei miei amici. Se riusciamo a creare la pace e ottenere l’indipendenza del paese è un bene, altrimenti dovremo riprendere le armi”. Per ora, nel suo periodo di prova, c’è da spazzare via le ultime cellule di al Qaida e da contrastare l’influenza degli sciiti che arriva da nord, dal quartiere di Shula. Ma c’è anche da riportare alle loro case le famiglie fuggite durante le fasi più violente degli scontri, che si tratti di sunniti o di sciiti. Anche di questo Raad parla attorno al tavolo dei comandanti di zona. Qualche ora prima, alla stazione di polizia trasformata per qualche ora in zona franca, delegazioni delle diverse confessioni religiose ne hanno discusso sotto gli occhi cordiali degli americani armati fino ai denti. Vassoi di tè e fucili appoggiati alle ginocchia. “Se la Coalizione mantiene le promesse siamo con loro, altrimenti se è una bugia combatteremo”. Quando gli si chiede se Abu Omar al Baghdadi, leader iracheno dello stato islamico dell’Iraq, è un personaggio reale oppure è soltanto un’invenzione della propaganda di al Qaida che vuole apparire “indigena” – come sostengono gli americani – Raad smette di colpo di parlare in arabo. In inglese fluente risponde: al Baghdadi non è fiction, esiste veramente, è iracheno ed è conosciuto ad al Anbar. Per Raad, il comandante del fronte politico di al Qaida “ha le sue idee. Io non l’ho mai incontrato di persona, non posso giudicare”. Se il baathista rifiuta di prendere posizione su al Baghdadi e su al Qaida – “si tratta di una leadership militare” – ha invece le idee chiare sul Risveglio di al Anbar. Sono i volontari sunniti che fanno nella provincia occidentale quello che i loro gemelli di Ghaziliya fanno a Baghdad. “Noi siamo una cosa diversa, non facciamo parte del Risveglio sunnita di al Anbar. Il Risveglio è una vendetta, una missione personale, d’odio, i suoi appartenenti uccidono troppa gente”. Nel 2004 in prigione Raad ha conosciuto i militanti stranieri che hanno scatenato la rabbia dei clan di al Anbar. Arrivavano dal Libano, dal Chad, dall’Arabia Saudita, dall’Iran (“dalla minoranza sunnita” dice), dal Kuwait, dalla Turchia, da tutto il Maghreb. Ma anche dall’Europa. “Ho visto mujaheddin arrivati dalla Francia e ho sentito parlare – ma non li ho incontrati – di volontari dall’Italia. Venivano perché credevano nella guerra santa contro le forze della Coalizione. Lo impone la nostra religione. Alcuni di loro sono stati uccisi, altri arrestati, altri hanno lasciato il paese, altri sono rimasti attivi”. Erano arrivati dopo la caduta di Saddam, dice, approfittando della debolezza postinvasione dell’Iraq. Prima dell’11 settembre il regime non aveva contatti con gli estremisti, come sostenevano gli americani, “e Abu Mussab al Zarqawi, futuro leader dei terroristi, non era ancora qui, io lo so perché ero allora ufficiale speciale dell’esercito e avevo accesso a questi dossier”. Perché il Baath andava “soltanto ripulito” Raad il duro, il nuovo amico degli americani, ha un momento di nostalgia. “Oggi in Iraq centinaia di persone sono state uccise e il governo non fa nulla. Al tempo di Saddam c’erano violenze e morti, ma due o tre alla settimana. Non abbiamo trasformato il paese in meglio. Ora le forze della Coalizione hanno cambiato strategia e lavorano bene. Ma è stato un grave errore dissolvere l’esercito di Saddam. Avrebbe potuto offrire protezione e sicurezza al paese”. Dopo lo scioglimento dell’armata, ne è stata creata una nuova, in fretta, mettendo assieme persone senza esperienza. E infatti l’esercito si fa battere dalle milizie. Inoltre, le nuove forze armate sono state fondate su basi troppo settarie. “La soluzione sarebbe stata mantenere l’esercito così com’era e eliminare soltanto i vertici, ripulirlo”. I nuovi ufficiali iracheni, fino a quattro mesi fa, non potevano neppure scendere dai loro mezzi e comprare le sigarette senza essere attaccati. Poi siamo arrivati noi, anche se nell’ultima settimana le cose sono un po’ cambiate. C’è chi vuole fermare il processo di riconciliazione”. Si riferisce al governo centrale. Ma è ancora presto per tornare all’uso della forza. “Dobbiamo pensarci due volte prima di agire, abbiamo già fatto troppi sbagli”.
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