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La Stampa Rassegna Stampa
14.12.2007 Parlano il premier palestinese Salam Fayad e il generale israeliano Giora Eiland
due interviste di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 14 dicembre 2007
Pagina: 8
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Il dopo-Annapolis è partito malissimo - La nuova Palestina? tutta da ridisegnare»
Da La STAMPA del 14 dicembre 2007, un'intervista di Francesca Paci al premier palestinese Salam Fayad, che accusa Israele di essere "irremovibile" sulle colonie sulla base inconsistente della costruzione di nuove abitazioni ad Har Homa, quartiere ebraico di Gerusalemme:

«Come dite in Italia? Il buongiorno si vede dal mattino? A giudicare dall'ultimo incontro con i negoziatori israeliani, inflessibili sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sarà una brutta giornata per il processo di pace». Il premier palestinese Salam Fayad non cela la delusione: «Il dopo-Annapolis è partito con il piede sbagliato». Bisogna recuperare in fretta: lunedì a Parigi dovrà convincere i Paesi donatori a sborsare 5,6 miliardi di dollari per il futuro Stato palestinese, indipendente e soprattutto «economicamente florido». Businessman navigato oltre che ex ministro delle finanze, non vuol tornare a casa a mani vuote. Nato 55 anni fa a Dir al Rasum, un villaggio vicino Tulkarem, laureato in chimica a Beirut e in economia a Houston, consulente alla Banca Mondiale prima e poi rappresentante del Fondo Monetario Internazionale presso la neonata Autorità Nazionale Palestinese, estraneo alle gerarchie di al Fatah ma organico al suo popolo, Fayad è un vero self-made-man. Basta entrare nell’ufficio spartano di Ramallah dove ci riceve, per capire il tipo: la scrivania ordinata con il telefono da cui chiama regolarmente Olmert e la Casa Bianca; pochi efficienti impiegati che parlano arabo, ebraico e inglese; neppure l’ombra di un attestato autocelebrativo alle pareti.
La polemica sulle 307 nuove case che Israele vuole costruire a Gerusalemme est e un diluvio di razzi Qassam da Gaza sul Negev hanno accompagnano il primo colloquio dopo Annapolis. Il premier israeliano Olmert ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen mentre lei ha visto il ministro della difesa Barak e l’inviato del Quartetto Tony Blair. Qual è il bilancio di questo debutto?
«Molto negativo. Un inizio di giornata pessimo per il processo di pace. Che Israele continui l’espansione degli insediamenti è in contraddizione con Annapolis. Le colonie vanno rimosse, su questo non si discute. Ne va della credibilità dell’intero percorso. Gli insediamenti sono incompatibili con la pace».
E i razzi Qassam?
«Capisco la preoccupazione degli israeliani. La loro sicurezza è anche la nostra. Gaza rappresenta un problema per entrambi. Ma sugli insediamenti non ho trovato alcuna sensibilità».
A Parigi proporrà il «Building a Palestinian State», un piano triennale da 5.6 miliardi di dollari: come li utilizzerà?
«Il piano è dettagliato. Un quinto delle risorse, per esempio, andrà all’educazione: vogliamo formare una generazione con curriculum internazionali. Nel 2008 investiremo 427 milioni nello sviluppo. Ma attenzione, i fondi sono un aiuto non la soluzione: il problema israelo-palestinese è politico, non economico. L’economia non basterà a sciogliere i nodi».
L’ultimo rapporto della Banca Mondiale spiega che l’economia palestinese dipende dalla mobilità e dunque dalle restrizioni israeliane. Ma tra il 1993 e il 2002 i palestinesi hanno ricevuto 4 miliardi di dollari, a gennaio 2007 1,2 miliardi di dollari (il 10% in più rispetto al 2006). Eppure, il reddito pro-capite di uno dei popoli più sovvenzionati del mondo è calato dell’8%, il livello della povertà è aumentato del 30%, la disoccupazione è al 40%. È solo colpa degli israeliani?
«Ovviamente no. E capisco le obiezioni che faranno i donatori. Per quanto tempo ci dovranno mantenere? Hanno ragione. Stiamo lavorando sugli sprechi: da maggio a oggi abbiamo tagliato 40 mila posti nel settore pubblico, pagato 6 mesi di salari congelati da un anno e mezzo, avviato 150 progetti internazionali. Stiamo costruendo la polizia palestinese e in tre anni ridurremo il deficit del 11,3%. Ma non basta. Israele deve contribuire, i check-point ci limitano, vanno rimossi. Per decollare dobbiamo poter accedere al mercato mondiale. Ma su questo la collaborazione israeliana è pari a zero».
Il piano Building a Palestinian State prevede la riapertura del porto e dell’aeroporto di Gaza. Non le pare utopico, oggi?
«Gaza non starà così per sempre. Va restaurata la legittimità politica. Non esiste Stato palestinese senza Gaza e non esiste Stato senza infrastrutture. Il porto e l’aeroporto, come i valichi di frontiera, saranno il volano della nostra economia».
Israele minaccia di invadere Gaza. Può essere una soluzione?
«Non entro nel merito di cosa debba fare l’esercito israeliano. Confido in una soluzione interna, il ripristino del legittimo governo palestinese. La gente di Gaza è depressa, arrabbiata».
Ipotizziamo la soluzione interna: come farete a dialogare con Hamas che neppure riconosce Israele?
«Posso confrontarmi con il pluralismo politico, con Hamas abbiamo divergenze politiche enormi. Ma non posso confrontarmi con il pluralismo in tema di sicurezza. Hamas deve smantellare le milizie, non tollereremo armi al fuori dalle istituzioni».
Due Stati per due popoli. È ancora il progetto vincente?
«È l'unico possibile. Lo sosteniamo ormai da 15 anni».
Si fida del presidente Bush?
«Ad Annapolis abbiamo visto l’amministrazione americana molto impegnata. Lo stesso Bush sembra assai determinato».
E i palestinesi?
«Se mi fido? Certo. È il mio popolo. L’importante è spiegargli le priorità, le sfide, le prospettive».
Di Israele infine, si fida?
«Guardo alle azioni e quelle israeliane non sono incoraggianti. Voglio la pace per entrambi i popoli, un futuro migliore, i nostri e i loro diritti. Ma se il buongiorno si vede dal mattino...».

Di seguito, un'intervista a Giora Eiland, ex capo del consiglio di sicurezza nazionale del premier Sharon prima e poi di Olmert:

Per capire il grado di complessità del conflitto israelo-palestinese basta guardare una cartina. La linea del ‘67; quella di cemento e reticolato che gli israeliani chiamano «barriera difensiva» e i palestinesi «muro»; l'arcipelago di villaggi arabi, insediamenti ebraici, cimiteri e check-point. E se la soluzione non fosse politica ma geografica? Se l’ipotesi main stream «Due popoli e due Stati» fosse impraticabile? Se una regione grande quanto la Lombardia non potesse ospitare 11 milioni di persone, 7 milioni e mezzo di israeliani e 3 milioni e mezzo di palestinesi, per quanto separati? Se servisse più spazio? Qualcuno, nell'empireo militare israeliano, ci sta pensando molto seriamente.
A rivelarlo è il generale Giora Eiland, 55 anni, ex capo del consiglio di sicurezza nazionale del premier Sharon prima e poi di Olmert, uno dei protagonisti dello sgombero di Gaza nel 2005 pentitosi in seguito dell'errore strategico che «non garantirà stabilità a lungo termine». A maggio aveva anticipato a «La Stampa» un piano alternativo che doveva coinvolgere direttamente Egitto, Giordania e Arabia Saudita e ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Un concorso di donazioni per ampliare la terra da dividere. Oggi, quel piano visionario ma studiato da esperti come il professor Yehoshua Ben-Arie, docente di geografia all’università di Gerusalemme, circola con un certo successo ai piani alti del Dipartimento di Stato Americano.
«Abu Mazen e Olmert non credono alla soluzione Due popoli e due Stati», spiega Giora Eiland. «Seppure Hamas perdesse consenso fino a scomparire mancherebbero le condizioni per il dialogo». Secondo il generale l’empasse è fisiologico: «Israele è pronto a fare concessioni a patto di eliminare il terrorismo. I palestinesi, invece, chiedono garanzie preventive». Da qui il dubbio geopolitico: e se i palestinesi non volessero uno Stato? «Chiedono giustizia, denunciano le loro sofferenze, invocano l’unità del mondo arabo, ma non parlano mai d'indipendenza».
A questo punto potete tranquillamente stracciare la cartina iniziale. Un’alternativa sarebbe quella caldeggiata da re Hussein di Giordania, una confederazione autonoma facente capo ad Amman. Ma, notoriamente, i palestinesi non ne sono entusiasti. Ecco dunque il piano B, la soluzione Eiland, ridisegnare i confini: «L’Egitto cede un pezzo di deserto del Sinai all’Autorità Palestinese che ci sposta il 13% della Cisgiordania e, grazie a finanziamenti israeliani per le infrastrutture portuali, ottiene un accesso strategico al mar Mediterraneo». Una frammentazione ulteriore dell’ancora inesistente Stato palestinese? Non esattamente: «Il progetto prevede un corridoio che colleghi Palestina, Giordania e Egitto e abbia il permesso di transito da parte d'Israele».
L’idea sembrerebbe fantapolitica se Giora Eiland non avesse previsto un “tornaconto" per il Cairo: «Il corridoio sarebbe per l'Egitto uno snodo importante verso l'Arabia Saudita e i facoltosi porti regionali». Certo, bisognerebbe convincere Mubarak a cedere una fetta di Sinai. Ma, mormorano i militari israeliani, basterebbe assicurare a suo figlio, l’ingegnere, la guida del consorzio edile per il corridoio e a lui un orizzonte di gloria, magari una candidatura al Nobel della Pace per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Tutto sistemato? Ancora no. Perché, osserva il generale, «la mediazione con l'Egitto non può essere portata avanti dagli israeliani, né tantomeno dagli americani». Il posto di "facilitatore" è vacante, nel senso che si accettano candidature. Giora Eiland scuote la testa al nome di Tony Blair, troppo vicino all'amministrazione Bush, ma sorride a quello di Joschka Fischer, ex ministro degli esteri tedesco. E se si presentasse un italiano? «Benvenuto». Il concorso è aperto.

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