Patrimonio. Una storia vera Philip Roth Einaudi
Chi conosce Philip Roth sa quanto sia radicale la sua avversione per ogni forma di sentimentalismo, per le scorciatoie letterarie che lui chiama con disprezzo “metafore lagnose” e “analogie poetizzanti”. Pericoli che sono sempre in agguato quando, come in “Patrimonio. Una storia vera” (ora tradotto da Vincenzo Mantovani per Einaudi, più di sedici anni dopo l’uscita americana), il tema è quello della malattia e della morte di un padre – Herman Roth, il genitore ottantaseienne dello scrittore – al quale viene diagnosticato un tumore al cervello. Poche storie, allora, com’è nello stile dell’autore di “Everyman”. La sentenza, l’annuncio di dolore è lì, nelle immagini di una risonanza magnetica sparse sul letto di un albergo: “La volontà di Dio eruppe da un roveto ardente e, in un modo non meno miracoloso, quella di Herman Roth era scaturita in tutti questi anni da quest’organo bulboso. Avevo visto il cervello di mio padre, e tutto e nulla era stato rivelato. Un mistero quasi divino, il cervello, anche nel caso di un assicuratore in pensione con licenza media rilasciata dalla Thirteenth Avenue School di Newark”. Di questo padre immenso e fragile, amato e osteggiato, solido e sfinito, il figlio scrittore “deve” raccontare la storia della vita e della lotta con la malattia. Herman Roth è un uomo che ama vivere,che ha sempre affrontato il mondo con determinazione e humour, che non conosce autocompatimenti, che ama la propria indipendenza, anche se questo, dopo la morte della moglie, significa avere una casa in disordine, la biancheria sempre troppo grigia e il bagno impresentabile. E’ un pragmatico ex funzionario di una grande compagnia di assicurazioni, giustamente fiero del piccolo ma sicuro benessere raggiunto dopo tanti anni di lavoro, e ancora ben deciso a dare un senso pieno ai propri giorni. Il piccolo immigrato ebreo di seconda generazione di Newark, che aveva dovuto interrompere gli studi per guadagnarsi la vita, il liberal convinto che non lesina mai sulle “ardenti tirate antirepubblicane”, che chiama con sarcasmo Reagan “Re-gun”, e che legge il New York Times solo quando un vicino gli passa nel pomeriggio la propria copia, si trova all’improvviso, come capita a molti anziani, a diventare figlio del proprio figlio. Depositario, quest’ultimo, della verità sulle condizioni paterne, e per questo tormentato dalla pena e dalla paura di assistere impotente al decadimento del genitore, oltre che costretto a decidere per lui, e a doverlo fare dopo estenuanti colloqui con medici che non fanno altro che contraddirsi. E che dimostrano di non sapere affatto ciò che è “bene” per Herman Roth. Herman Roth, invece, sa cos’è bene per sé. Stupirà l’agnostico Philip quando gli confesserà: “Ho dato via i miei tefillin”, le due scatoline di pelle contenenti brani biblici che l’ebreo osservante lega alla fronte e al braccio sinistro, durante le preghiere mattutine. Il vecchio, che osservante non è mai stato, racconta al figlio di averli abbandonati, chiusi in un sacchetto di carta, nell’armadietto dello spogliatoio della Y (Young Mens’ Hebrew Association), dove un tempo andava a nuotare. Lì, “in quel luogo segreto dove gli ebrei stavano svergognatamente nudi l’uno davanti all’altro poteva seppellire i suoi tefillin senza doversi preoccupare”. Qualcuno li avrebbe trovati e “riconsacrati”. L’espediente stravagante di un vecchio che sente, seppure non sa, che la fine è vicina, diventa un audace rituale di speranza, la conferma del senso della sua lunga vita. Il vecchio muore e, racconta Philip Roth, in fondo a un cassetto del comò della sua camera da letto “mio fratello trovò una scatola bassa con due scialli da preghiera piegati con cura. Da quelli non si era separato. Non li aveva nascosti in un armadietto della Y o regalati a uno dei pronipoti. Il tallis più vecchio me lo portai a casa, e nell’altro seppellimmo lui”. Spietato con se stesso, Roth si chiede se davvero, rispetto a un normale vestito, “il sudario era meno assurdo – mio padre non era ortodosso e i suoi figli non erano affatto religiosi –, e se non fosse pretenziosamente letterario e anche un po’ istericamente ipocrita”. Si risponde che quello è il modo in cui gli ebrei vengono seppelliti da sempre, e tanto basta. “Non devi dimenticare nulla”, è l’imperativo con cui chiude il libro. Un imperativo religioso: forse suo malgrado, forse no. Nicoletta Tiliacos Il Foglio |