Il "leone di Odessa", Ze’ev Jabotinsky leader del sionismo revisionista
Testata: Il Foglio Data: 30 novembre 2007 Pagina: 0 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Il re senza corona di Israele»
Dal FOGLIO del 30 novembre 2007 un articolo di Giulio Meotti sul leader sionistaZe’ev Jabotinsky, a partire dali lbro di Vincenzo Pinto "Imparare a sparare" :
Nel novembre del 1938 un ebreo russo a capo di un movimento noto come “Nuova organizzazione sionistica” spedì a uno studente sudafricano una lettera che ha fatto epoca, tanto da essere stata inserita più di trent’anni dopo nell’Enciclopedia Judaica. “Perché vivere?”, chiedeva lo scrittore presagendo un’Europa trasformata nel mattatoio del giudaismo, intravedendo i forni della Shoah nelle immagini della vaporosa, piacevole volgarità della borghesia tedesca e mitteleuropea, le salsicce che scoppiano, i vasi da notte, le birre e gli antisemiti vestiti in calzoni attillati di cuoio. “Il suicidio è peggio della codardia, è la resa. Nei prossimi dieci anni vedremo lo stato d’Israele non solo proclamato, ma anche realtà”. La redenzione di Israele andava cercata prima quaggiù in terra, senza aspettare gli angusti spazi celesti. L’autore della lettera, Ze’ev Jabotinsky, sarebbe diventato la figura più popolare in Israele, dopo esserne stato per decenni il demone nero che non meritava neppure l’eterno riposo nella terra che tanto amava. Lo afferma un incredibile sondaggio reso noto dal quotidiano Yedioth Ahronot e il numero di strade che gli sono state dedicate. Il “lupo solitario” padrino della destra israeliana, da Menachem Begin ad Ariel Sharon passando per Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu, precede di gran lunga il suo storico avversario, David Ben Gurion e il profeta Theodor Herzl, fra le figure più amate della storia israeliana. C’è soltanto una donna. Non è Golda Meir, ma Hannah Senesh, si fece paracadutare dietro le linee naziste e fu torturata a morte dalla Gestapo. Jabotinsky era profondamente pessimista sulla tenuta della cultura illuminista, vedeva la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita che si sarebbe mangiato gli ebrei, decifrò per primo l’imminente salasso israelitico nella nazione che aveva vinto il maggior numero di Nobel e raggiunto per prima l’alfabetizzazione di massa. “Saggio è stato il filosofo che ha detto homo homini lupus: l’uomo è lupo all’uomo, e passerà molto tempo prima che questo potrà essere corretto, non con una riforma del sistema elettorale, né con la cultura o con l’insegnamento e l’esperienza. Quando mi viene rimproverato che sostengo il separatismo, la sfiducia e tutte le altre cose da digerire per gli intellettuali, vorrei rispondere: lo ammetto, sono fatto così, sostengo e sosterrò questo e altro, perché il separatismo, la sfiducia, l’essere in guardia, il tenere sempre il bastone in mano è l’unico mezzo per sopravvivere in questa guerra di lupi”. Jabotinsky ordinava ai suoi seguaci del Betar di strappare la bandiera nazista dal consolato tedesco a Gerusalemme. Quelle incursioni sono entrate a far parte degli annali dell’eroismo israeliano. Poeta, romanziere, giornalista, soldato, visionario e statista, Vladimir Ze’ev Jabotinsky con un gruppo di amici nel 1904 fondò la casa editrice “Kadima” (Avanti). Lo stesso nome che avrebbe usato Sharon per fondare il suo partito. Jabotinsky si firmava con lo pseudonimo “Altalena”, come la nave carica di armi e combattenti revisionisti affondata da Ben Gurion a largo di Tel Aviv. Jabotinsky aveva la vocazione del grande normalizzatore, secondo Begin combinava “la nobiltà dello spirito a una logica di ferro”. Le fotografie ci trasmettono l’immagine di un filologo in fuga dalla persecuzione, un concentrato di orgoglio e tristezza, rabbia e fierezza. Apolide e rivoluzionario morto a New York nel 1940 dopo un’esistenza di lotte e sconfitte, Jabotinsky è al centro di un saggio di Vincenzo Pinto, “Imparare a sparare” (Utet). Il titolo riprende una raccomandazione che il leader sionista trasmise al filosofo della politica Leo Strauss. Il libro è la prima accurata ricostruzione di una figura ampiamente vendicata dalla storia. Già negli anni Venti, mentre la sinistra sionista cercava di conciliare socialismo ebraico e nazionalismo arabo, nella pretesa che la logica di classe e l’universalismo socialista sciogliessero l’incipiente conflitto, Jabotinsky ebbe la chiarezza intellettuale di comprendere il dominio della Palestina. Fu lui a lanciare l’allarme sul destino degli ebrei d’Europa, propose l’“evacuazione” di tutti quelli che vivevano “là”. Non scelse a caso un termine che suggeriva l’emergenza, “sono in pericolo milioni di ebrei europei”. Come ha scritto Tom Segev nel suo libro “Il settimo milione”, “se avessero dato ascolto al leader revisionista Ze’ev Jabotinsky, avrebbero evacuato tutti gli ebrei d’Europa prima della guerra, portandoli in Palestina”. In un breve articolo intitolato “Il Muro di Ferro” Jabotinsky riconosceva, ben prima che se ne accorgessero i laburisti – che nel 1969 per bocca di Golda Meir negavano ancora l’esistenza di un’identità nazionale palestinese – che gli arabi di Palestina erano un popolo, che il conflitto consisteva in uno scontro tra due aspirazioni nazionali e che i sionisti sarebbero riusciti nel loro intento soltanto se capaci di difendere il loro progetto politico con la forza delle armi. Jabotinsky sapeva che la presenza ebraica in territorio arabo non sarebbe stata una festa né per gli ebrei né per gli arabi, quanto il grandioso e tragico inveramento di un incredibile sogno che dura dalla fine dell’Ottocento. Il suo “Muro di Ferro” è la chiave di volta dei trattati di pace con Egitto e Giordania. Fu travisata perché interpretata in chiave offensiva e non difensiva, è la capacità di difendersi per scoraggiare l’avversario e costringerlo ad accettare l’esistenza d’Israele. Il giovane leone di Odessa aveva capito che questa era l’unica strategia possibile in un paese che si percorre con un jet in due minuti e la cui esistenza, come ha scritto Ehud Barak, “può essere distrutta in un solo giorno di combattimenti”. Fu Jabotinsky a comprendere che la diplomazia che aveva partorito Monaco non avrebbe guadagnato agli ebrei uno stato. “Se una Bibbia sionista è mai stata scritta, Jabotinsky deve essere considerato il suo compassionevole profeta”, scrive Sarah Honig sul Jerusalem Post. I seguaci ne hanno avvolto la figura con un velo di santità. Il Wall Street Journal nel 1987 pubblicava un articolo che chiedeva riforme liberiste in Israele. Era stato scritto nel 1926 da Jabotinsky. “L’uomo era un genio”, dice Rafaella Bilski dell’Università ebraica di Gerusalemme, il cui saggio “Every individual a king” ha riabilitato la figura di Jabotinsky, a cui Ben Gurion si riferiva con il nomignolo di “Adolf” e “Vladimir Hitler”. Fu proprio il ritorno delle sue spoglie a Gerusalemme, sul monte Herzl accanto agli altri eroi della rinascita ebraica, il gesto con il quale il successore di Ben Gurion, Levi Eshkol, avviò la pacificazione. Quando Begin si affacciò dall’Hotel Aviv in Sion Square, per denunciare l’accordo fra il governo israeliano e quello tedesco, pronunciò queste parole: “Nel nome di Gerusalemme, nel nome di quanti sono saliti sul patibolo, nel nome di Ze’ev Jabotinsky, se dimenticherò lo sterminio degli ebrei, che mi si secchi la mano destra; che la lingua mi si incolli al palato se non vi ricorderò, se non metterò al di sopra di tutti i miei dolori lo sterminio degli ebrei”. Begin aveva perso tutta la famiglia nella Shoah. “Jabotisnky è stato influenzato da Labriola e da Garibaldi”, ci spiega Vittorio Dan Segre, saggista e combattente durante la guerra d’Indipendenza israeliana. “Un uomo geniale con una memoria straordinaria, scriveva in un ebraico classico e ha tradotto Dante. E’ stato il primo straniero ufficiale dell’esercito britannico. Fu condannato a morte per la difesa degli ebrei a Gerusalemme nel 1919. E’ uno dei personaggi più romantici ed eroici della storia ebraica, ma è stato dimenticato dalla corrente socialista. L’idea del Muro realizzata da Sharon è di Jabotinsky, oggi i suoi figli sono al potere. Livni è nata nell’adorazione di Jabotinsky, Olmert pure. I revisionisti sono stati dimenticati, il sionismo doveva essere di sinistra e laburista”. Non è d’accordo lo storico Benny Morris, che ha appena pubblicato “La prima guerra d’Israele” (Rizzoli). “Molti israeliani ancora non conoscono Jabotinsky. E’ morto nel 1940, prima che lo stato fosse realizzato e non fu decisivo nella creazione. E’ diventato importante da un punto di vista ideologico nel 1977 con l’arrivo al potere di Begin, il suo erede. I revisionisti erano una minoranza molto attiva. Nella prima elezione generale del 1949 presero soltanto il 12 per cento dei voti. Tutto cambia negli anni Settanta, quando l’Herut arrivò al potere riscattando la storia revisionista, grazie al voto degli immigrati delle ondate di aliyah. Oggi sono al potere i suoi eredi, i likudniks. I padri di Livni e Olmert erano revisionisti”. Odessa, il luogo natio di Jabotinsky, era una città unica al mondo. Creata a fine Settecento per volere della zarina Caterina II, il porto sul Mar Nero divenne il laboratorio illuminista dell’Europa levantina. Vladimir Ze’ev nacque nell’ottobre 1880 come secondogenito da Evgenij, un mercante ebreo secolarizzato di seconda generazione e da Eva Sack, di famiglia ebraica benestante, più tradizionalista e infarcita di cultura tedesca. Privo di un’educazione ebraica e di una vicinanza al mondo yiddish, Jabotinsky fu “acculturato” come un tipico ebreo russo. Giunse a Roma nell’autunno 1898 e si iscrisse alla facoltà di legge. Dirà di essere diventato sionista durante quel soggiorno. Il pogrom di Kishinev del 1903 lo spinse a formulare l’idea di autodifesa ebraica: sionismo significa che mai più il sangue degli ebrei sarebbe scorso impunemente. Quell’anno Jabotinsky prese parte al sesto congresso sionista, ma fu sovrastato da Herzl. Rimase abbagliato dalla figura di Herzl, come lui giornalista e come lui visionario (Kraus definì Herzl un “ridicolo messia”). “Un profilo di un imperatore assiro come quelli sulle antiche lastre di marmo”, scrive di Herzl. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, Jabotinsky, che si era fatto un nome da esteta e letterato, fu spedito come inviato in Europa occidentale. “Il sionismo cerca di strappare gli ebrei dalla vicinanza spirituale con l’Europa? No. Il sionismo cerca un luogo per gli ebrei, dove essi possano conservare tale vicinanza, sviluppare e gustarla, senza soffrire la degradazione o la persecuzione”. Pensava che il sionismo fosse innato nelle masse ebraiche, “sono silenti, non parlano ma pensano, e il sionismo articola i loro pensieri. Nei giorni di dolore, in esilio, che cosa può sognare il popolo se non una patria; pregò e si strusse per essa in tutti i suoi libri sacri, forniti di espressioni miracolose, preservando le rovine dei luoghi santi, dati ai loro avi, strappati ai loro padri e promessi ai loro nipoti”. A San Pietroburgo iniziò la carriera di polemista nemico della soluzione bundista, quanto di quelle liberali e socialiste. La sua scrittura era piena di orgoglio ebraico, “noi non eravamo abituati, dalla nostra infanzia, all’idea che potevamo essere ebrei, ma che non dovevamo essere ebrei”. Da una parte, diceva, ci sono quelli che, più o meno con sapevolmente, hanno perduto ogni speranza e che conducono l’identità ebraica verso la “sparizione definitiva”; dall’altra quelli che cercano di preservare “questo fratello che ha il nome di Israele”. “E’ lo scontro tra il desiderio di vivere e la sottomissione a un verdetto di morte”. Voleva che l’ebraismo abbandonasse la cultura del ghetto per quella del “braccio che adopera la spada, dei muscoli di granito e tendini d’acciaio”. Immaginava quelle masse prendere la strada per Haifa e Tel Aviv, come avrebbero fatto su carrette di fortuna dopo l’Olocausto. “Verrà il momento in cui il mio popolo sarà grande e indipendente e la Palestina sarà illuminata dai raggi della sua naturale bellezza, nel sudore del suo suolo che lo lavorerà. La mia opera è quella di uno spaccapietre che costruisce il nuovo tempio per il suo Dio sovrano assoluto. Il nome di questo Dio è il popolo ebraico. E se un lampo attraversa istantaneamente il cielo oscuro degli stranieri, impongo al mio cuore di non battere e ai miei occhi di non vedere. Prendo il mattone che segue in fila e lo metto sull’altro; e questa è l’unica mia risposta al fragore della distruzione”. I laburisti pensavano invece che soltanto la rivoluzione socialista fosse il presupposto per un focolare ebraico. Il giovane ammiratore di Verlaine e di Rimbaud vide un’unica soluzione all’antisemitismo: una patria ebraica in Palestina, l’emigrazione di massa e la riappropriazione della forza da parte degli ebrei. La svolta fu l’incontro con Josef Trumpeldor ad Alessandria d’Egitto nel dicembre 1914. Lì erano stati ammassati molti coloni ebrei (tra cui Ben Gurion) espulsi dalla Palestina. Trumpeldor era un mito per l’impresa sionista: aveva partecipato al conflitto russo-nipponico del 1905, perdendo il braccio sinistro nella battaglia di Port Arthur; unico soldato ebreo promosso ufficiale, al termine del conflitto si era laureato in legge all’università di San Pietroburgo; successivamente aveva deciso di abbandonare la Russia per compiere alijah in Galilea. L’alone carismatico promanato da Trumpeldor era descritto così da Jabotinsky. “Con la sua unica mano era più destro che tanti di noi con due. Con quella egli si lavava, si radeva, si vestiva; con quella tagliava il suo pane e si puliva le scarpe; con quella, in Palestina e, più tardi, a Gallipoli guidava il suo cavallo e maneggiava il suo fucile”. In una lettera dell’ottobre 1915, il giornalista di Odessa chiarì il suo progetto: critica di ogni posizione opportunistica di fronte agli eventi; postulato della pressione morale; necessità di un’autodifesa armata; realismo politico inteso come capacità di adattare repentinamente i mezzi tattici in vista degli obiettivi strategici. Jabotinsky non era amato dal mondo ebraico dell’Inghilterra e dalla stampa d’opinione, come il Times, che ne sosteneva la secolarizzazione. I britannici, che facevano capo al chimico Chaim Weizmann, erano intenzionati a rafforzare la “splendid relationship” con Londra. Jabotisnky pretendeva l’immediato riconoscimento di un’autodifesa ebraica organizzata. Il 24 gennaio 1930 il capo revisionista parlò di immigrazione necessaria per l’Europa dell’“incurabile antisemitismo”. Accusò i laburisti di aver svenduto “i sacri tesori della Torah”. Alle critiche di clericalismo ebraico Jabotinsky rispose che “è il potere morale della religione, e non la sua falsificazione clericalistica che intendiamo includere nella nostra piattaforma. Non riconoscete che la Torah contiene nobili e sacre verità?”. Il 13 marzo 1940 sbarcò a New York. Sei giorni dopo parlò al Manhattan Center davanti a quattromila persone. L’unico “obiettivo di guerra” degli ebrei, disse, è la restaurazione dello stato ebraico. Telegrafò al neopremier britannico Winston Churchill, proponendogli un esercito ebraico con una propria bandiera da utilizzare su tutti i fronti di guerra alleati, simile a quello del governo polacco in esilio, in cambio di una revisione della politica del Libro bianco sull’emigrazione ebraica in Palestina. Era l’origine della Legione ebraica. Non vide mai la nascita d’Israele, ma i suoi uomini del Betar contarono 60 mila militanti in Europa orientale, si batterono come leoni nei ghetti e nelle foreste, ma anche nei deserti della Giudea e della Samaria. Secondo Moshe Arens, ministro della Difesa e autore della storia dei revisionisti nelle rivolte contro i nazisti, “Jabotinsky era il più grande leader sionista”. Quando morì esule a New York nel 1940, nessun organo di stampa laburista diede la notizia con risalto. Ben Gurion si oppose finché fu vivo al trasporto delle sue ceneri in Israele. “Oggi la gente inizia a capire che Jabotinsky fu il più democratico dei sionisti”, ha detto l’ex primo ministro Yitzhak Shamir. Il caso volle che finisse i suoi giorni da apolide dopo aver predicato la fine dell’assimilazione e il “ritorno alle radici”. Morì cercando di convincere gli americani sulla partecipazione materiale del giudaismo alla causa antinazista. Non sapeva che un milione e mezzo di ebrei avrebbero combattuto nelle armate alleate. Non fece in tempo a vederli partire, quei volontari stranieri nella guerra, per la libertà d’Israele. Il leone di Odessa, per bocca del suo bellissimo Sansone letterario, lasciò un testamento al popolo ebraico: “Che raccolgano armi, scelgano un re e imparino a ridere".
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