Parole definitive su Annapolis Bernard Lewis indica la condizione per la pace: l'accettazione di Israele come Stato ebraico
Testata: Il Foglio Data: 28 novembre 2007 Pagina: 3 Autore: Bernard Lewis Titolo: «Per Lewis, accettare lo stato ebraico è la condizione per la pace»
Dal FOGLIO del 28 novembre 2007, un articolo di Bernard Lewis (ripreso dal Wall Street Journal e da Milano Finanza), sulla conferenza di Annapolis e sul nodo centrale della pace in Medio Oriente:
Ci sono da fare alcune considerazioni sulla conferenza di pace di Annapolis e, soprattutto, sull’approccio da tenere nei confronti del conflitto arabo israeliano. Prima domanda: qual è la ragione del conflitto? Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di una domanda ovvia, in realtà non è così. Due, fondamentalmente, sono le possibilità: nel primo caso, la ragione è da cercare nelle dimensioni di Israele; nel secondo, riguarda l’esistenza stessa dello stato ebraico. In un caso abbiamo a che fare con un problema strettamente legato ai confini, come in Alsazia– Lorena e in Texas: so che non è facile da dire, ma si potrebbe convivere con il problema nell’attesa di una soluzione a lungo termine. Se, invece, il motivo del conflitto fosse l’esistenza stessa di Israele, allora la soluzione non potrà certo arrivare con i negoziati. Non c’è un compromesso possibile tra l’esistenza e la non esistenza dello stato ebraico, e nessun governo israeliano accetterà di negoziare sul fatto che Israele debba o non debba esistere. Di tanto in tanto, nei loro discorsi diplomatici pronunciati in inglese, l’Olp e altri rappresentanti palestinesi forniscono indicazioni ufficiali sul riconoscimento dello stato di Israele. Ma quel messaggio non è lo stesso che arriva nelle case arabe o sui libri di testo delle scuole elementari, nei dibattiti politici o nei sermoni religiosi. Perché i termini utilizzati in lingua araba non rimandano certamente alla fine delle ostilità, bensì a un armistizio o a una tregua destinata a terminare quando la prospettiva di una guerra contro Israele avrà maggiori possibilità di successo. Non ci sarà un negoziato di pace senza una genuina accettazione del diritto di Israele a esistere in quanto stato ebraico nello stesso modo in cui i paesi membri della Lega araba sono riconosciuti come stati arabi o quelli della Conferenza islamica come paesi islamici. Un buon esempio di quanto questo problema influenzi i negoziati è la questione dei profughi. Durante la guerra del 1947-48, 750mila arabi volarono o furono trasportati fuori da Israele trovando rifugio nei paesi confinanti. Nello stesso periodo, un numero crescente di ebrei subì la stessa sorte: furono costretti a lasciare prima la parte della Palestina controllata dagli arabi (a nessuno di loro fu permesso di rimanere), poi i paesi confinanti dove i loro antenati avevano vissuto per generazioni. La maggior parte di questi profughi trovò riparo in Israele. Quel che accadde fu, in effetti, uno scambio di popolazione non diverso da quello che aveva preso corpo un anno prima nel subcontinente indiano, dove l’India britannica fu divisa in due parti, India e Pakistan. Milioni di profughi lasciarono le terre di origine, gli hindu furono trasportati in India, gli islamici in Pakistan. E’ possibile rintracciare un altro buon esempio in quel che accadde nell’Europa orientale alla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’Unione sovietica decise di annettere una larga parte di Polonia orientale e compensò Varsavia con una fetta di Germania. Questo portò ad un grande movimento di profughi. I polacchi furono trasferiti dall’Unione sovietica alla Polonia, i tedeschi dalla Polonia alla Germania. I polacchi e i tedeschi, gli hindu e i musulmani, gli ebrei costretti a fuggire dagli stati arabi: tutti trovarono una sistemazione nei nuovi paesi senza l’aiuto della comunità internazionale. L’unica eccezione riguarda gli arabi palestinesi e i paesi confinanti. Il governo giordano ha garantito una forma di cittadinanza agli arabi palestinesi, ma di fatto li ha lasciati nei campi profughi. In altri paesi arabi, i palestinesi sono rimasti senza uno status giuridico, senza diritti e opportunità, mantenuti soltanto grazie ai fondi delle Nazioni Unite. Paradossalmente, se un palestinese fosse andato in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, avrebbe potuto ottenere la nazionalità nel giro di cinque anni, mentre i figli venuti al mondo in quei paesi sarebbero stati cittadini per diritto di nascita. Se, invece, la stessa persona avesse trovato rifugio in Siria, Libano o Iraq, sarebbe rimasta senza uno status per generazioni. La ragione di questo fenomeno è stata analizzata da diversi politici arabi: è il bisogno di preservare questo popolo come un’entità separata sino al momento in cui sarà possibile rivendicare l’intera Palestina, dalla Striscia di Gaza sino allo stesso Israele. La richiesta di un ritorno dei profughi significa, in altre parole, la distruzione dello stato ebraico. Ed è altamente improbabile che il governo israeliano prenda in considerazione una richiesta del genere. Ci sono segnali di cambiamento nei circoli arabi. C’è la possibilità che Israele venga accettato e che lo stato ebraico fornisca un contributo positivo alla vita pubblica della regione. Ma opinioni come queste sono espresse solo furtivamente. Qualche volta, chi le esprime viene quantomeno incarcerato. Sono opinioni che incidono ancora poco o niente sulla leadership. Il che ci porta indietro al summit di Annapolis. Se la questione non riguarda le dimensioni di Israele bensì la sua esistenza, i negoziati saranno inutili. Alla luce di quanto avvenuto in passato, è chiaro che questa rimarrà la questione cardine sino a quando i paesi arabi raggiungeranno o rinunceranno al loro obiettivo: la distruzione di Israele. Ma nessuna delle due ipotesi, al momento, sembra potersi verificare.
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