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Il Foglio Rassegna Stampa
27.11.2007 Sergio Romano, giù la maschera
l'analisi di Giorgio Israel

Testata: Il Foglio
Data: 27 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «Romano non vede di buon occhio Israele,ma con gli occhi dell’Islam»

Dal FOGLIO del 27 novembre 2007, Giorgio Israel recensisce l'ultimo libro di Sergio Romano, "Con gli occhi dell'islam, mezzo secolo di storia in una prospettiva mediorentale":

Secondo quanto dichiara Sergio Romano, lo scopo di questa sua ultima fatica è di “allargare l’orizzonte temporale delle crisi mediorientali”. Egli raccomanda al lettore di non lasciarsi fuorviare dal titolo che “contiene un’intenzionale forzatura e non significa che l’autore abbia adottato il punto di vista del nazionalismo arabo e dell’islamismo radicale”, bensì soltanto che occorre saper guardare anche con gli occhi altrui e secondo altre prospettive, diverse da quelle con cui “una parte importante dell’opinione pubblica occidentale ha giudicato le vicende di questa regione negli ultimi decenni”. Vediamo subito questo programma all’opera nel modo in cui Romano valuta il fallimento della conferenza di Camp David da cui dipendono i drammatici sviluppi che hanno condizionato il medio oriente fino a oggi. Bisogna riconoscere a Romano che egli non concede nulla alle deformazioni dei fatti che hanno cercato di presentare la piattaforma di Camp David come una truffa nei confronti dei palestinesi a solo vantaggio degli israeliani. Egli informa che, secondo la proposta finale dei negoziati, i palestinesi avrebbero avuto il 97 per cento dei territori occupati nel 1967; avrebbero avuto la sovranità di Gerusalemme est, dei quartieri arabi della Città vecchia e anche del “monte delle moschee” (che taluno chiama anche Monte del Tempio…). Gaza e Cisgiordania sarebbero state collegate da un’autostrada o una ferrovia sopraelevata. I rifugiati avrebbero avuto il diritto di tornare soltanto nel nuovo stato di Palestina e, ove non avessero voluto avvalersi di questo diritto, avrebbero potuto accedere a un fondo di 30 miliardi di dollari. Romano aggiunge che “il rifiuto di Arafat fu, soprattutto alla luce di ciò che accadde negli anni successivi, un errore politico”. E allora? Ma… c’è un “ma” enorme: è il modo in cui l’opinione occidentale accolse questo errore politico, e cioè senza la minima comprensione delle “difficoltà” di Arafat, del fatto che quel che appariva alle menti occidentali un “ragionevole accordo” era per i palestinesi “il riconoscimento di una sconfitta, un atto di resa, un diktat”. E’ interessante capire qual è l’ottica palestinese (araba e islamica) che faceva vedere come un diktat quel “ragionevole accordo” e che Romano invita a considerare con apertura e comprensione. In primo luogo, i palestinesi avrebbero dovuto accettare di aver perso “l’integrità del loro territorio (la Palestina mandataria)”. In secondo luogo avrebbero dovuto accettare di perdere un pezzo di Gerusalemme, la cui “dimensione simbolica” era decisiva per tutto il mondo arabo-musulmano e “rinunciare alla città per accontentarsi di qualche quartiere (perché di questo si trattava) avrebbe suscitato lo sdegno dell’Islam”. E poi, se per l’occidente era normale ammettere che Israele volesse preservare la sua identità “etnico-religiosa”, rifiutando il ritorno di tutti i “rifugiati”, per i palestinesi e gli arabi si trattava dell’“avallo di un’ingiustizia”. Romano non si limita a descrivere ma accusa l’occidente di non aver voluto capire e di aver preso quel rifiuto come “duplicità, scaltrezza, espressione di pretese irragionevoli”. Fuori dalle chiacchiere vediamo cosa implica un discorso come questo, in concreto. 1) che Israele avrebbe dovuto accettare, almeno in linea di principio, il rientro anche in tutti i suoi territori di qualsiasi palestinese o suo discendente; 2) che avrebbe dovuto cedere tutta Gerusalemme alla sovranità palestinese; 3) last but not least, che avrebbe dovuto “venire incontro” – si trovi un altro termine più sfumato, se esiste – al legittimo diritto dei palestinesi di riavere il “loro territorio”, la Palestina mandataria. Non c’è bisogno di essere particolarmente intelligenti per dedurre che cosa derivi da queste pretese: la pura e semplice soppressione dello stato d’Israele. Se era questa la prospettiva che Romano intendeva illustrare, non c’era bisogno di un libro: bastava un discorso di Mahmoud Ahmadinejad o la lettura della “carta costituzionale” di Hamas o anche di Fatah. Se invece voleva trasmettere l’idea che l’occidente sbaglia a non guardare con comprensione a questa prospettiva e sbaglia a tacciarla di “pretesa irragionevole”, allora tutto si riduce all’esibizione dei suoi inquietanti sentimenti personali. I quali sono peraltro rivelati dal modo con cui i fatti sono apparentemente dati in modo oggettivo, ma in realtà rovesciati da una presentazione tendenziosa. Come si può dire che “in effetti si trattava” di “rinunciare alla città [Gerusalemme] per accontentarsi di qualche quartiere”? I palestinesi avrebbero ottenuto tutta la parte araba e due terzi della Città vecchia: era in realtà Israele a compiere le rinunce più pesanti, addirittura al proprio massimo luogo sacro! Certo, in un’ottica di pura logica formale, sarebbe corretto persino dire che chi ottenga l’intera città di Roma eccetto Trastevere, sta rinunciando alla città per accontentarsi di qualche quartiere (tutti eccetto uno…). Se poi si dà per scontato che ogni diritto storico sulla Palestina mandataria sia soltanto arabo, che soltanto gli arabi abbiano diritto a considerare Gerusalemme sacra, e che gli unici profughi della storia che hanno il diritto di accamparsi in attesa di tornare a casa “loro” siano i palestinesi, anche la logica formale va a farsi benedire. Il libro è tutto così: una raccolta di fatti, tutti formalmente presentati in modo oggettivo, ma inquadrati in una presentazione che li incornicia fedelmente nella visione o sguardo dell’islamismo più estremista. Ogni passaggio da una fase storica all’altra è interpretato come derivante da un errore o una sopraffazione di Israele e da un’incomprensione dell’occidente, per lo più degli Stati Uniti. Hamas si sarebbe potuta evolvere democraticamente, in ragione di alcune embrionali tendenze percepite soltanto dall’autore, altrettanto dicasi di Hezbollah, e via giustificando (l’islam) e condannando (Israele). Quando poi la tematica si fa scabrosa, essa viene semplicemente cassata: si cercherebbe invano nel libro un’analisi della seconda Intifada e del terrorismo suicida. Si salta semplicemente da Camp David alla guerra in Iraq e alla vittoria elettorale di Hamas. Di “mezzo secolo di storia” vengono presentati soltanto dei brandelli. Dicevamo che il libro offre sistematicamente la prospettiva (e la comprensione) dell’islam estremista. Ma presenta piuttosto l’incontenibile antipatia dell’autore nei confronti di Israele, che lo conduce a smarrire completamente quel pragmatismo di cui pure dà prova in tanti altri contesti. E’ quell’antipatia per tutto ciò che ha a che fare con Israele e con le nomenklature ebraiche – una “k” che contiene un’evidente allusione sovietica, ma che fa pensare anche ai “Kossiga” o agli “amerikani” scritti sui muri – che lo condusse a deplorare le “fastidiose regole ebraiche, un catechismo fossile di una delle più antiche, controverse e retrograde fedi religiose mai praticate in Occidente”. E che lo ha condotto di recente a nuove improbabili sentenze sull’Antico Testamento, suscitando la replica di un teologo cattolico, cui ha risposto con la sufficienza tipica della categoria emergente dei nuovi esegeti e teologi di stampo laico-scientifico. Viene da chiedersi a che cosa servano libri che non sono testi di storia, non sono reportage giornalistici, non sono saggi di analisi politica, strategica o diplomatica, ma soltanto raccolte di fatti scelti senza alcun criterio se non quello di permettere l’esternazione delle idiosincrasie dell’autore. Giorgio Israel

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