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Quaderni e Diari 1950-1973 di Hannah Arendt a cura di Chantal Marazia
Neri Pozza Euro 55
Sono 29 quaderni manoscritti di vario formato, per la maggior parte con la copertina rigida e rilegati a spirale, di cui 28 numerati forse dall’autrice stessa con numeri romani sulla prima pagina, ora raccolti nei “Quaderni e diari 1950- Prevalentemente in lingua tedesca (anche se l’inglese, lingua di lavoro, si insinua insieme ad altre lingue da cui cita: il greco, il francese), qui la scrittrice annota, appunta, progetta, discute tra sé e sé i libri che legge, torna su certi temi che come un pensiero dominante l’assillano: la questione del male, e il bene, e la vita e l’amore e il perdono, la solitudine.
Riferendosi in inglese a questi suoi appunti, Arendt usa il termine notebooks, che è diverso da diary; del diario non hanno il ritmo quotidiano, né l’aspetto intimo, segreto. Ma in tedesco, secondo quanto riferisce Lotte Kohler, usò il termine Denktagebuch: a conferma che la traduzione è impossibile. La scelta di mantenere le due parole nel titolo accetta l’impossibilità. Come che sia, sono quaderni in cui Hannah Arendt appunta i pensieri nel momento della loro insorgenza, pensieri che nella camera oscura di questo primo incontro con la carta e la penna la mente fissa, poi saranno le parole a sviluppare. Anche per chi conosca i libri in cui tali pensieri sono sfociati, la lettura dei frammenti è emozionante.
Sapevamo quanto contasse nello sviluppo del suo pensiero la lettura di Platone, di Kant, di Marx…Qui tornano e ritornano e ogni volta sono veri incontri. Incontri personali, profondi: Nietzsche la sollecita a certi pensieri. Montaigne ad altri. Lei risponde; non a caso, la responsabilità è il suo grande tema. E il suo grande dono. Ha quella abilità, o capacità: ne risponde – del dramma storico che nel cuore del secolo scorse paralizzò fior fiori di intellettuali e pensatori e scrittori, come della filosofia, della politica, delle teorie sociali che interpretano il mondo.
E’ una donna dotta, Hannah. Ha fatto buone scuole e ha avuto maestri importanti: Jaspers, Heidegger. Ma soprattutto a l’indipendenza. In ogni citazione che trascrive si sente che non è una ripresa, è un rilancio. Il tono è di austera solitudine. Sì, ha degli amici con i quali dialoga: Mary McCarthy, il marito Heinrich Blucher. Sono presenze che affiorano, ma mai un accenno sentimentale, mai una caduta nel personale.
Non parla di sé. Solo due volte, se non ho contato male, affiorano con incantevole pudicizia i fantasmi della sua vita privata, il padre, ad esempio. Nel luglio 1970 annota: “mi ricordo ciò a cui pensavo a sette anni, il giorno in cui morì mio padre – cioè primo, non dobbiamo importunare Dio con le preghiere, secondo, non voglio dimenticare…” E conclude: “mi sento assolutamente identica a me stessa: sono sempre io”. Così ribadisce come la sua propria esistenza sia per lei un esperimento, oltre che un’esperienza; il banco di prova del suo pensiero.
L’altro dato personale, intimo, che penetra queste pagine è un sogno del novembre 1968. Sogna Kurt Blumenfeld, dirigente dell’Organizzazione sionista, ormai morto, al quale la legavano l’amicizia e posizioni avverse, contrarie, rispetto al sionismo. Kurt si leva il sigaro di bocca e fa per baciarla. E lei ride. Si sveglia ridendo per la gioia di un incontro inatteso.
Quanto alla morte del marito, scomparso il 31 ottobre 1970, la trascrive rapidamente il 25 novembre. La prossima intestazione nel quaderno è all’inizio del 1971: “Senza Heinrich. Libera – come una foglia al vento”. Nadia Fusini
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