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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Philip Roth Patrimonio 26/11/2007

Patrimonio  Philip Roth

 

Einaudi  Euro 16,50

Herman Roth, un americano. Un americano ebreo, non un ebreo americano. Il padre di Philip Roth, alfiere di quella generazione di figli di immigrati il cui vero lavoro è stato diventare americani. “I cittadini migliori” scrive l’autore. Protagonista di un elegiaco memoir, Herman ci viene presentato alla fine dei suoi giorni, quando la paralisi di un lato del viso rivela la presenza di un tumore al cervello – un intruso, “quell’unghia che per dieci anni gli era cresciuta nella cavità del cranio, fatta di un materiale duro e tiglioso come lui”.

 

Assicuratore in pensione venuto dalla gavetta, Herman fino ad allora aveva goduto di una salute invidiabile, per un uomo di 86 anni, la sua compagnia era ambita da coetanei e vivaci e attempate vedove a cui distribuiva senza risparmio consigli e il racconto delle storie di famiglia, quella grande associazione familiare che erano i Roth di Newark. “Era il suo Deuteronomio, la storia del suo Israele”, chiosa Philip. Ora si trova di fronte alla Grande Estranea, arrivata a reclamare i suoi diritti nel modo peggiore. Di fronte alla solitudine della morte, il figlio ricorda il padre, tiranno domestico una volta pensionato, fino all’astio, poi menomato dalla morte della diletta moglie vittima di una ossessiva caparbietà e ostaggio di “trionfanti pregiudizi” – lo ricorda e lo osserva ora, prodigiosa macchina per lavorare già ridotta all’inattività che deve affrontare il castigo della menomazione: un vilipendio. Un uomo il cui motto è “Non dimenticare nulla”, ma che ha l’enigmatica propensione a liberarsi con imbarazzante rapidità e noncuranza dei ricordi di famiglia.

 

E proprio ragionando di questo enigma Philip capisce la grandezza del padre, un saggio primitivo capace di gesti originali, come quello di abbandonare i suoi tefillin nell’armadietto dello spogliatoio della locale YMHA (Young men’s Hebrew Association), a indicare quanto sia più aderente dello studio del rabbino alla sua visione del giudaismo. E’ così che il figlio riconosce la profonda affinità col padre: uno spietato realismo, orgoglio della schiatta e strumento di conoscenza del mondo. Fino alla rivelazione più generosa per uno scrittore: “E’ lui il bardo di Newark. Tutta quella roba su Newark, così avvincente, non è la mia storia: è la sua”. E’ dal padre che viene quella scorza dura che è della lingua di Philip Roth, quel realismo ruvido sempre a un passo dalla sgradevolezza che si risolve in rilievo figurativo. Ora quella lingua salvata serve al figlio per ricordare il padre: “Ha combattuto una battaglia così lunga…lunga e onorevole”: dove nell’ultima parola c’è tutto l’orgoglio e l’amore di un figlio nato dal tiranno che ha combattuto. E la scoperta del patrimonio che gli spetta come figlio. Sarà la rivelazione finale, quale può un grande scrittore.

 

Tiziano Gianotti

 

Donne – La Repubblica


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