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La Stampa Rassegna Stampa
26.11.2007 Al via il vertice di Annapolis
la cronaca di Maurizio Molinari e l'editoriale di Arrigo Levi

Testata: La Stampa
Data: 26 novembre 2007
Pagina: 8
Autore: Maurizio Molinari - Arrigo Levi
Titolo: «Tutti in America per fare la pace C’è anche la Siria - Annapolis ultima occasione»

Da La STAMPA del 26 novembre 2007:

Abu Mazen promette di «far avverare i sogni del mio popolo», Ehud Olmert parla di «inizio di nuova via alla pace in Medio Oriente», la Siria rompe gli indugi confermando che sarà seduta al tavolo della conferenza e Condoleezza Rice media, tentando di arrivare ad un testo finale congiunto che al momento appare lontano. Sono i prodromi del summit di Annapolis, il vertice di tre giorni sulla pace in Medio Oriente che inizia oggi a Washington con i bilaterali di George W. Bush con i leader di Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp), continuerà domani nella cittadina coloniale del Maryland alla presenza dei ministri di circa 40 Paesi e terminerà mercoledì alla Casa Bianca con un’ultima sessione di colloqui fra Bush, Olmert e Abu Mazen.
L’arrivo a Washington dei protagonisti è avvenuto nel segno dei proclami: tanto Ehud Olmert e Abu Mazen si sono detti ottimisti sulla possibilità di compiere «passi concreti» verso la pace, contemporaneamente all’annuncio da parte di Damasco dell’invio del vice ministro degli Esteri, Faysal Mekdad, in cambio della promessa di Washington che ad Annapolis si discuterà anche delle Alture del Golan, in mano israeliana nel 1967. La presenza siriana era molto desiderata dalla Rice al fine di incrinare l’asse con Teheran, ostile all’esistenza di Israele e dunque anche al processo di pace.
Ma per il resto prevale l’incertezza. Israeliani e palestinesi restano divisi sul contenuto e perfino sul nome del testo conclusivo che dovrebbe disegnare lo status finale: futuro di Gerusalemme, confini e rifugiati. Il ministro degli Esteri saudita Al Faisal è in arrivo, assieme ai colleghi di 15 Paesi arabi, in cambio dell’assicurazione che non stringerà la mano a rappresentanti dello Stato Ebraico. La Siria preme per discutere del Golan mentre il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, precisa che «la prevalenza va per ora al binario palestinese».
Saranno i primi incontri alla Casa Bianca fra Bush, Olmert e Abu Mazen a chiarire se ad Annapolis si andrà oltre il cerimoniale. Il piano americano, confezionato da Condoleezza Rice, è duplice: raggiungere un’intesa di massima sullo status finale la cui realizzazione sarà affidata a successivi negoziati; mettere in luce l’isolamento dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad, unico Paese mediorientale non invitato. A dimostrazione che il summit di Annapolis cela un’agenda anti-iraniana il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, sarà questa mattina al Pentagono per discutere con il collega Robert Gates come fronteggiare la minaccia nucleare di Teheran, mentre ad Annapolis le feluche della Rice stanno predisponendo una coreografia tesa a sottolineare l’isolamento della Repubblica Islamica. Ahmadinejad scommette sullo scivolone di Bush e muove le sue pedine: parlando al telefono con il presidente siriano Assad ha previsto il «fallimento di Annapolis» mentre gli alleati libanesi di Hezbollah ironizzano sullo «show mediatico» e quelli palestinesi di Hamas preannunciano attentati.
Ad auspicare il successo del vertice è stato invece Benedetto XVI, esprimendo nell’Angelus il desiderio che si trovi «una soluzione giusta e definitiva». «Imploriamo pace per quella regione a noi tanto cara e i doni della saggezza e del coraggio per tutti i protagonisti dell’incontro», ha detto il Papa. L’Italia sarà presente al summit con il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e il presidente del Consiglio, Romano Prodi, parlando da Dubai, ha chiesto «coraggio» a israeliani e palestinesi per «avviare un negoziato concreto che affronti i veri nodi del conflitto» grazie all’impegno diretto nelle trattative non solo degli Usa ma anche della «comunità internazionale».

Di seguito, dalla prima pagina della STAMPA, un editoriale di Arrigo Levi:

Sono molte le ragioni che inducono a prevedere che la conferenza di Annapolis sarà un insuccesso, o nel migliore dei casi solo un successo di facciata, poco più di una photo opportunity, incapace di rilanciare il processo di pace.
C’è anzitutto la debolezza dei tre principali interlocutori: con Olmert, che ha un governo diviso e una Knesset che si oppone a ogni concessione su Gerusalemme; con Abu Mazen che controlla (formalmente) solo una parte del territorio e del popolo palestinese; e un Bush - quel Bush dal quale l’Economist vorrebbe l’audacia di gettare sul tavolo, come la spada di Brenno, un piano americano da imporre alle parti in conflitto - che è già un’anatra zoppa, con un’amministrazione in parte contraria a dar fastidio in alcun modo a Israele. E poi resta fuori Hamas, che non accenna a una svolta moderata, premessa necessaria ma ardua di una vera pace, e oltre Hamas il terrorismo islamico: come non temere atti terroristici miranti a sabotare la pace?
E ancora: sono molti e difficili i nodi da sciogliere per rendere possibile la pace tra due Stati sulla stessa terra. Israele dovrà rendere la grandissima parte dei territori occupati, e impegnarsi a smantellare le molte colonie illegali e a contenere l’espansione degli insediamenti che dovrebbero sopravvivere, offrendo in cambio territorio quasi equivalente a quello che i palestinesi dovrebbero perdere: compreso uno spazio credibile perché i palestinesi possano dire di avere anche loro una capitale a Gerusalemme. Soprattutto, in una fase di transizione e di negoziati, Israele dovrà restituire ad Abu Mazen veri poteri di controllo sui suoi territori.

Metterà così a rischio la propria sicurezza prima di sapere se i palestinesi siano veramente disposti a cessare ogni ostilità contro lo Stato ebraico (il ritiro da Gaza non è incoraggiante). D’altra parte, i palestinesi dovranno rinunciare all’impossibile sogno del rientro dei palestinesi in esilio nel territorio israeliano, e accettare che questo si autodefinisca uno «Stato ebraico», anche se con pieni diritti per la minoranza araba.
Tutto questo appare al momento più impossibile che difficile. Quali ragioni vi sono dunque, se ve ne sono, che giustifichino la speranza che la conferenza di Annapolis non sia un insuccesso? È importante, anzitutto, il fatto che l’incontro israelo-palestinese si sia trasformato in una conferenza sul Medio Oriente, con la partecipazione di importanti Stati arabi, compresa la Siria, con l’implicito riconoscimento del diritto all’esistenza d’Israele, isola ebraica e occidentale in un mare arabo e islamico. E questo può far sì (è l’opinione di un esperto come Ugo Tramballi) che «il solo svolgersi farà della conferenza di Annapolis un successo».
E poi gioca a favore la consapevolezza che se la conferenza non metterà in moto un processo di pace da concludersi in un arco di tempo definito, l’insuccesso avrebbe esiti drammatici per ambo le parti. I palestinesi potrebbero perdere l’ultima occasione per far nascere un loro Stato; e gli israeliani perdere l’ultima occasione per raggiungere quel riconoscimento al diritto di esistere, che soltanto la pace con un nuovo Stato palestinese potrà assicurare. La potenza militare non darà mai a Israele la stessa certezza di sopravvivere.
È anche importante che sia la maggioranza degli israeliani che la maggioranza dei palestinesi siano oggi disposti ad accettare la soluzione dei due Stati. È duro per tutti vivere in un’eterna incertezza, in uno stato di guerra. E pensare che alla fine del 1948 (rievoco lontani ricordi), all’indomani di una guerra persa dagli Stati arabi, che avevano promesso di gettare a mare gli ebrei, gli israeliani avevano l’ingenua convinzione di avere vinto la pace! Quell’ansia di pace non è mai venuta meno. E i palestinesi aspirano più che mai ad avere un loro Stato.
Infine, anche se non è vero che il conflitto israelo-palestinese sia la causa di tutti i mali del Medio Oriente - i conflitti che lacerano il mondo arabo-islamico hanno ben altre radici - è vero che far pace a Gerusalemme, città della pace, faciliterebbe il compito tremendo di spegnere tutte le micce accese nella regione: anche in Iraq, anche in Afghanistan. E questo ci tocca da vicino.
Quegli europei che, aspirando a rinchiudersi in un cieco isolazionismo, predicano il nostro ritiro dall’Afghanistan, ripetono l’errore di quelli che, di fronte al nazismo, si chiedevano se valesse la pena di «morire per Danzica». Chi ha dato coscientemente, eroicamente, la propria vita per salvare vite afghane, per salvare un ponte che è un pezzo dell’opera di ricostruzione di un Afghanistan in pace, ha sacrificato se stesso non per un cieco senso del dovere, ma per salvare la nostra pace, la nostra sicurezza nel mondo reale in cui viviamo, un brutto mondo, forse più pericoloso che in ogni altra epoca storica. Non mi riesce di capire coloro che questo non lo hanno capito.

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