Giorgio Israel sulla conferenza di Annapolis. Giustamente inizia con la citazione di Sergio Romano, definito :
Annapolis. Forse bisognerebbe profondersi negli auspici di circostanza ma non riesco a sottrarmi all’impressione netta che si tratti di un evento destinato al fallimento e a un esito comunque negativo. Dietro Annapolis si staglia Camp David e, a leggere le pagine dedicate a quella conferenza da Sergio Romano, nel suo ultimo libro, si trae l’impressione che i blocchi siano sempre gli stessi, a distanza di un lustro. Citiamo Sergio Romano perché, per sua stessa dichiarazione, egli si fa portavoce del punto di vista arabo-palestinese. Romano ammette che, secondo la proposta finale, i palestinesi avrebbero avuto il 97 % dei territori occupati nel 1967, la sovranità di Gerusalemme Est, dei quartieri arabi della Città Vecchia e del Monte del Tempio, oltre a un collegamento fisico tra Gaza e Cisgiordania. Eppure, dice Romano, questo risultato fu vissuto come un Diktat… E perché mai? Perché costituiva l’ammissione di una “sconfitta”: rinuncia alla totalità della Palestina mandataria, perdita di un pezzo sostanziale di Gerusalemme, la terza città santa per l’Islam, rinuncia al ritorno dei rifugiati in ogni luogo della Palestina. Per gli arabi e i palestinesi accettare la “pretesa” di Israele di preservare la sua identità etnico-religiosa era l’“avallo di un’ingiustizia”.
Ora, con buona pace delle tiritere di certi intellettuali israeliani cari ai giornali delle sinistre europee e che in essi trovano il loro principale ascolto, è difficile pensare che Israele possa andare oltre a Camp David 2000. Anzi, quel che è stato detto e ripetuto è che quell’offerta è irripetibile e che Israele, pur di ottenere pace, riconoscimento e confini sicuri, si era spinto su una linea che andava oltre il pensabile. Se, per assurdo, Israele si ripresentasse con la linea dell’ultima proposta di Camp David, spetterebbe ai palestinesi fare il passo che Arafat non volle compiere allora, e cioè accettare quella proposta. Ma le cose non stanno affatto così. Perché, questioni territoriali a parte, restano almeno due ossi duri su cui la dirigenza palestinese “moderata” di Abu Mazen non sembra voler mollare di un centimetro: il riconoscimento del diritto al rientro dei profughi, almeno di principio, e il rifiuto di riconoscere Israele come stato degli ebrei. Anzi, il modo netto con cui questo rifiuto è stato avanzato rappresenta una novità sconcertante. Si rigetta il principio che gli ebrei siano un popolo – e quindi si rigetta il principio fondante del sionismo – per concedere agli ebrei soltanto l’identità religiosa, e – si aggiunge – non si è mai visto uno stato fondato su una religione. Ora, a parte il fatto che gli esempi di stati teocratici si trovano proprio in ambito arabo-islamico, è davvero singolare che si neghi agli ebrei il diritto a rappresentarsi come identità nazionale, mentre si avanza il diritto a creare uno stato sulla base di un’identità nazionale fabbricata artificialmente come quella palestinese. Si può tranquillamente, in nome del realismo, lasciare da parte la questione di tale artificialità, ma è inaccettabile che si usino due pesi e due misure per negare il diritto degli ebrei di avere uno stato.
Francamente, a me pare che certi irrigidimenti, e soprattutto questo rifiuto di principio – e non ha capito nulla del Medio Oriente chi non si rende conto che qui tutto si gioca proprio sulle questioni di principio! – siano in funzione del conflitto tra Fatah e Hamas e che la dirigenza palestinese “moderata” recandosi ad Annapolis guardi strabicamente più verso Gaza che verso Israele. Il suo problema è l’egemonia politica e militare su Hamas. In queste condizioni, Annapolis rischia di ridursi a una tribuna propagandistica senza costrutto e che danneggerà soltanto Israele. Il vero nodo è ancora e sempre più quello messo in luce mesi fa in un articolo sul Foglio firmato dal sottoscritto e da Giuliano Ferrara: la questione palestinese, dopo la vittoria di Hamas a Gaza, si è liquefatta e ogni tentativo di riesumarla nei vecchi termini è destinato all’insuccesso. È come voler prendere il problema per la coda, sperando che un gruppo dirigente di Fatah debole e timoroso di spostarsi su posizioni troppo moderate venga rafforzato dalle concessioni di Israele. Finché resterà sul campo l’equivoco che le concessioni di Israele non bastano mai – e di fatto sembrano bastare soltanto nella misura in cui implicano la possibilità di principio della dissoluzione di Israele, in quanto non titolare di alcun diritto di nazionalità e di fatto con l’accettazione al rientro dei profughi – non vi sarà soluzione.
I problemi irrisolti sono principalmente due: l’affermarsi di una sola rappresentanza democratica del popolo palestinese e la sconfitta di Hamas, e questo spetta ai palestinesi, se vogliono mostrare che la loro “questione” esiste ancora; la risoluzione della questione libanese e il disarmo di Hezbollah, che sono questioni su cui si sono fatti passi indietro, in barba ai facili ottimismi della nostra diplomazia nazionale che, un giorno, dovrà pur ammettere il suo fallimento. Poiché questi nodi anziché sciogliersi si sono aggrovigliati, Annapolis rischia di essere soltanto una sterile tappa verso nuovi conflitti.