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Europa Rassegna Stampa
23.11.2007 L'opinione di Abraham B. Yehoshua
sulla conferenza di Annapolis, le prospettive di pace, il ruolo di Europa e Stati Uniti

Testata: Europa
Data: 23 novembre 2007
Pagina: 5
Autore: Maurizio Debanne
Titolo: ««Ma non sarà un’altra Camp David»»

Da EUROPA del 23 novembre 2007, un'intervista di Maurizio Debanne ad Abraham B. Yehoshua :

Mentre gli Stati Uniti stanno definendo gli ultimi preparativi in vista della conferenza internazionale di pace che si terrà ad Annapolis il prossimo 27 novembre, Europa ha chiesto ad Abraham B. Yehoshua quali sono le sue aspettative sul vertice. Il famoso scrittore israeliano, animato da un immortale ottimismo, chiede all’Italia di essere «molto più attiva in ambito europeo sul dossier Medio Oriente» per non lasciare l’iniziativa in mano solo agli americani. È inutile nasconderlo, ammette Yehoshua: «Gli Stati Uniti hanno giocato una pessima partita nella regione mediorientale. E allora: avanti all’Europa».
Condoleezza Rice sostiene però che sia possibile raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi prima della fine del secondo mandato di George W. Bush, ovvero nel gennaio del 2009.
Una previsione assolutamente irrealistica. La Rice parla, parla, parla… mah… Le sue sono parole vuote. Lo sa quanti segretari di stato sono venuti in Israele negli ultimi quarant’anni? Almeno 15! Tutti si sono impegnati in varie missioni diplomatiche in Medio Oriente. Con quale risultato? Che nessuno di noi ricorda nulla a riguardo. Le assicuro che ci dimenticheremo anche di Condoleezza Rice quando tornerà a insegnare a Stanford.
Non può negare, però, che il capo della diplomazia americana si sia fortemente impegnata negli ultimi mesi.
Ma non si fa così la pace. Tutte le amministrazioni americane hanno fatto in Medio Oriente solo sbagli su sbagli su sbagli. Invece di parlare, perché negli ultimi dieci anni non hanno costretto Israele a smantellare almeno un insediamento colonico? Potevano farlo ma non lo hanno fatto. La realtà è che non riescono a imporre niente a Israele, sono letteralmente sottomessi alla politica del nostro paese. E ancora: quando in Medio Oriente si è parlato di pace non è stato grazie all’azione diplomatica di Washington. Prendiamo come esempio l’accordo tra Israele e l’Egitto. L’intesa di Camp David nel 1978 è stata possibile grazie alle diplomazie del Cairo e di Gerusalemme senza l’aiuto, anzi direi contro la volontà degli americani.
Mi pare di capire che le sue aspettative su Annapolis siano fortemente al ribasso? Non è vero. Ogni volta che si tiene un vertice tra Israele e gli arabi è un fatto positivo, anche se non si arriverà a grandi risultati. Sono poi sicuro che il vertice di Annapolis non si rivelerà un fallimento come fu invece Camp David II nel 2000. Questo perché Abu Mazen non è un uomo combattivo come Yasser Arafat. Il presidente palestinese sarà più ragionevole e più moderato anche qualora questo vertice non dovesse portare grandi frutti. Esiste però un grave problema. Nonostante le due parti siano veramente convinte di creare uno stato palestinese al fianco di Israele in pace e sicurezza, e sono certo che Olmert sia favorevole a questo obiettivo, le due leadership restano ancora debolissime.
Da dove deriva questa fragilità?
Riguardo i palestinesi, mi riferisco alla loro impossibilità di garantire il blocco totale degli atti aggressivi contro Israele. Non possono farlo ma non hanno neanche abbastanza forze per riuscirci. Soprattutto se ad Annapolis non verrà avanzata qualche concessione su Gerusalemme.
In questo caso l’opposizione interna sarà sempre più aggressiva e qualche piccolo gruppo cercherà di fare provocazioni fino ad affossare l’intero processo di pace.
Ma dalla parte israeliana la situazione è ancora più grave.
La questione su come arrestare le colonie è difficilissima e il governo israeliano non ha l’autorità, non soltanto politica, ma anche quella che io chiamo “autorità nazionale” per farlo, almeno fino ad oggi. Un ritiro dalla Cisgiordania può essere molto pericoloso perché la gente ha paura dopo l’esperienza infelice del ritiro dalla Striscia di Gaza, che non ha comportato la fine del lancio di razzi da parte di Hamas. E poi nella West Bank non parliamo mica di 8mila coloni da sgomberare, quanto meno bisognerebbe smantellare insediamenti in cui vivono 120mila persone.
La piattaforma politica di Kadima, il partito del premier Ehud Olmert, non prevedeva un piano di sgombero di buona parte degli insediamenti in Cisgiordania?
Israele non ha smesso per un solo giorno negli ultimi 40 anni la colonizzazione dei territori palestinesi. E allora vuol dire che Israele non è capace di risolvere il problema. La mia opinione è che bisognerà dire ai coloni che non vorranno rientrare in Israele di negoziare da soli direttamente con i palestinesi la loro permanenza negli insediamenti.
Israele non deve costringerli a tornare, se vorranno diventare cittadini palestinesi non vedo perché il governo si debba dichiarare contrario. In questo modo sono certo che riusciremo a far ritornare la maggior parte dei coloni e a compiere un disimpegno senza ricorrere all’uso della forza.
Credo infine che il ritiro non potrà essere realizzato senza un sostegno da parte della Lega Araba e dell’Europa.
Cosa può fare la Lega araba?
Un suo appoggio concreto è fondamentale per il perseguimento della pace. Si deve procedere verso una normalizzazione totale nei rapporti tra Israele e i paesi arabi, svolta che può essere possibile solo in presenza di una pace tra lo stato ebraico e la Siria. Damasco è la chiave.
Senza la pace tra questi due paesi niente funzionerà in Medio Oriente. Un accordo con Assad, a capo di un regime autoritario, è poi ben più facile da concludere rispetto a un’intesa con Abu Mazen. Per questo spero che gli americani appoggino ad Annapolis questo percorso.
In che modo siglare una pace con un regime autoritario può rivelarsi più semplice che farlo con un presidente democraticamente eletto?
Per due ragioni. Innanzitutto un regime autoritario quando firma un’intesa tiene la propria parola. Dopodiché il ritiro dal Golan è meno complicato dal punto di vista logistico rispetto a una ritiro dalla Cisgiordania. Perché lì i coloni da sgomberare sono solo 30mila, persone poi che non sono andate a vivere in quell’area per ragioni ideologiche come invece hanno fatto coloro che si sono stabiliti nella West Bank.
Ma quali sarebbero i punti di un possibile accordo tra Israele e Siria?
L’accordo si farebbe nello stesso modo con cui lo si è raggiunto con l’Egitto. Il primo passo sarebbe la demilitarizzazione dell’area. In cambio dello sgombero dei coloni, la Siria dovrà interrompere i legami con Hamas che a Damasco ha il suo quartier generale, e dovrà calmare gli Hezbollah. Con questo nuovo quadro immediatamente i palestinesi si troveranno costretti ad assumere posizioni più flessibili. Modificheranno le loro esigenze quando vedranno che i paesi arabi confinanti saranno tutti in pace con Israele. Effetti positivi si riscontreranno anche sul nostro versante. Il pubblico israeliano quando vedrà che la pace con la Siria funziona, sarà più flessibile su un ritiro dalla Cisgiordania e sulla necessità di costruire uno stato palestinese.
Tornando al conflitto israelo-palestinese, lei è uno dei firmatari di una petizione che chiede al governo israeliano di negoziare con Abu Mazen e al tempo stesso di raggiungere un cessate il fuoco con Hamas…
Non sono assolutamente in contraddizione. Il ritorno della calma a Gaza aiuterà il presidente palestinese. E poi metteremo fine alla sofferenza della popolazione palestinese e degli abitanti delle cittadine al sud di Israele.
Dobbiamo dunque provare a vedere se è possibile. Questo passo non comporta un riconoscimento reciproco né sarebbe una novità. Non sarebbe infatti la prima volta che Israele sigla tregue con paesi che non ci riconoscono.
E dopo il cessate il fuoco?
Innanzitutto chiariamo che Israele a Gaza non c’è più. Se i palestinesi vorranno avere con noi relazioni commerciali, noi saremo ben felici e pronti a intraprenderle. È nel nostro interesse che la Striscia di Gaza sia fiorente.
Sul miglioramento delle condizioni economiche dei palestinesi punta anche l’inviato del Quartetto, Tony Blair.
Una scelta positiva perché con i miglioramenti tangibili nella vita quotidiana si risolvono tanti problemi. Se Blair può migliorare la qualità della vita della popolazione palestinese tanto meglio per Israele.

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