martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
22.11.2007 I successi in Iraq, il silenzio della stampa
e il futuro della dottrina Bush

Testata: Il Foglio
Data: 22 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - la redazione
Titolo: «Petraeus ha (ri)liberato l'Iraq e blindato i confini Ora testa le mire dell'Iran - Le luci di Baghdad - La dottrina Giuliani è la dottrina Bush al fulmicotone ?»

Dal FOGLIO del 22 novembre 2007, un articolo di Daniele Raineri sulla situazione in Iraq:

Roma. David H. Petraeus, comandante dei soldati americani nel nuovo Iraq, si è lasciato sfuggire un passaggio eccezionale nell’intervista concessa al Wall Street Journal due giorni fa: “Abbiamo una formula per stimare quanti combattenti stranieri arrivano ogni mese. Pensiamo che ci sia stata una riduzione di circa un terzo, forse anche di più, ma è un dato che otteniamo per approssimazione basandoci sul numero degli attacchi suicidi, che spesso sono opera di stranieri. La nostra intelligence dice che c’è una diminuzione nel loro flusso”. Meno arrivi da fuori, meno attentati, meno stragi di iracheni. La formula candida del generale spiega in un colpo solo quattro anni interi di guerra in Iraq, tagliando fuori le discussioni – che pure in Italia ci sono state e hanno occupato pagine di giornali – sulla “resistenza irachena” e su da che parte fosse più accettabile pendere, se da quella dei marine o da quella dei tagliatori di teste. Al Qaida è un’organizzazione senza stato che, dopo l’intervento militare della Coalizione contro Saddam Hussein nel 2003, ha trasformato l’Iraq nel suo campo di tiro. Ogni autobomba è stata un messaggio ideologico e un successo di immagine, pagato molto più caro dagli iracheni che non dagli americani. “Ora i sunniti in Iraq guardano ad al Qaida per quello che è, un movimento ultraestremista in stile talebano – dice Petraeus – e gli hanno voltato le spalle”. Tra i fattori che hanno contribuito a indebolire i terroristi il comandante cita anche accordi taciti con la Siria. Prima dalla frontiera con l’Iraq i volontari passavano indisturbati. “Ora è molto più dura per un maschio in età militare atterrare all’aeroporto di Damasco con in tasca soltanto il biglietto di andata”.
Il secondo passaggio importante dell’intervista è quando il generale racconta le promesse fatte ad alto livello dal governo di Teheran a quello di Baghdad sulla questione delle forniture di armi, denaro e addestramento alle milizie. Promesse che confermano esplicitamente la regia e il controllo degli iraniani dietro a una parte delle violenze in Iraq. “Ci sono state parole inequivocabili sull’appoggio esterno alle milizie, che cesserà. Noi abbiamo qualche dubbio. Stiamo aspettando, francamente, di vederne le prove”. Nella versione di Petraeus è stata la ferocia cieca di al Qaida a provocare l’altro lato del problema iracheno: gli squadroni della morte sciiti. “Certamente ha innescato violenze etnico-settarie orribili e ha dato un pretesto alle milizie estremiste di parte sciita. Ma da quando la prima minaccia è stata rimossa – ma ha una capacità di rigenerarsi con cui dobbiamo misurarci – sta venendo meno anche il sostegno alle milizie estremiste, perché si tratta fondamentalmente di gang, criminali violenti, emotivi, rozzi e armati. La riduzione di questa minaccia è significativa, anche se c’è ancora ”.
Petraeus, che sa che ogni sua parola avrà un impatto politico sulla data di rientro delle truppe a Washington, è cauto: “Il progresso si accumula con il tempo. Non c’è un interruttore della luce. La situazione irachena non scatta da cattiva a buona. Passa da cattiva a meno cattiva&rdquo Il generale in congedo Robert Scales, ex comandante dell’Army War College, è invece libero di parlare con meno cautele. Appena tornato dall’Iraq, dove è andato a controllare a che punto è il piano di Petraeus, dice che “in questa guerra potremmo presto raggiungere il ‘punto di culmine’”. Il punto di culmine è quando il vantaggio passa da una parte all’altra in modo così netto che il finale diventa irreversibile. Il perdente può ancora infliggere perdite, ma ha perso ogni possibilità di vittoria. “Come fu la battaglia delle Midway contro i giapponesi, o quelle di El Alamein e Stalingrado contro i nazisti o Gettysburg nella Guerra civile americana. La sola questione – dice Scales – diventa quanto ancora durerà la guerra e quale sarà il conto finale del macellaio”. Il generale dice che il punto di culmine è un fatto psicologico, non fisico. “Tutti i comandanti con cui ho parlato a Baghdad mi hanno detto che c’è stato un grande cambio di umore rispetto a febbraio, quando Petraeus annunciò che avrebbero combattuto il nemico riprendendosi la capitale dalle mani di al Qaida”. Il piano consisteva nello spingere i soldati fuori da basi enormi e relativamente sicure per sparpagliarli tra i quartieri più violenti. La presenza di questi avamposti temerari funzionò, attrasse gli abitanti e li incoraggiò a passare informazioni sul nemico. Per vincere la battaglia di Baghdad, Petraeus allargò il perimetro di sicurezza al di fuori della capitale. A maggio dispose le truppe in quattro “cinture” concentriche attorno alla città. I suoi soldati riuscirono a sottrarre i paesotti satellite e la periferia all’influenza di al Qaida, e a strozzare così il passaggio di rifornimenti: compresa “la via delle autobombe”, che da officine esterne faceva arrivare i mezzi fino nel cuore di Baghdad. Per Scales, uno dei momenti decisivi fu giugno. “Il nemico fece un errore. Sentendo di perdere a Baghdad, si spostò a Baquba”, che la propaganda zarqawista indicava come “la capitale dello stato islamico dell’Iraq”. Era l’ultima occasione di mantenere i collegamenti con la capitale. Gli americani risposero con l’operazione Arrowhead Ripper. Alla fine di luglio, l’arroccamento a Baquba si rivelò un errore strategico: al Qaida fu costretta alla fuga, senza più nascondigli e appoggio popolare, e con molti dei suoi leader catturati o uccisi. Negli spazi aperti dei deserti del nord, come dimostra l’ottimo bilancio di ottobre, i combattenti di al Qaida sono diventati facili bersagli per le incursioni delle Forze speciali. Il punto di culmine, mette in guardia Scales, non è stato però ancora raggiunto sul piano politico. “Ci vorrebbe la stessa urgenza di cui sono stati capaci i generali Petraeus e Ray Odierno per riunire la nazione e tirarla indietro dal bordo dell’annientamento”. Persino Repubblica Il problema politico è lontano dalla soluzione. Petraeus si dice scontento, perché il governo sciita ancora non si occupa a tempo pieno della sicurezza nelle zone sunnite e per ora non concede un’amnistia generale agli ex funzionari del partito Baath, che permetterebbe loro di tornare a lavorare in ruoli pubblici. Anche i giornali liberal americani si accorgono degli spettacolari miglioramenti in corso nel paese. Anche se alcuni con un certo ritardo. In fondo, ogni autobomba che esplode in Iraq è un colpo ben assestato contro la politica estera di Bush. Ieri Repubblica ha tradotto un reportage del giornale liberal per eccellenza, il New York Times, che racconta una Baghdad dove – dall’arrivo di Petraeus, dieci mesi fa – la situazione della sicurezza è completamente cambiata in meglio. Però il quotidiano di Largo Fochetti dimentica di tradurre un paio di passaggi importanti. Rimediamo noi: “Per la prima volta in due anni, la gente si muove libera per la maggior parte della città. Dopo più di cinquanta interviste fatte in tutta Baghdad, diventa chiaro che, anche se ci sono ancora zone interdette, gli iracheni fanno la spola tra aree sciite e aree sunnite per lavoro, shopping o per andare a scuola, qualcuno anche quando viene buio. Nei quartieri più stabili di Baghdad le donne laiche vestono come piace a loro. Le bande che accompagnano i matrimoni suonano di nuovo in pubblico e in un pugno di negozi di liquori una volta chiusi i clienti fanno la fila fregandosene collettivamente dei vigilantes dell’esercito del Mahdi”. Eppure fino a poco tempo fa il corrispondente americano di Repubblica, Vittorio Zucconi, definiva il piano Petraeus così: “Lasciare che le tribù arabe si scannino tra loro”; il rapporto del generale davanti al Congresso “un intervento di make up”, e l’arrivo di Bush nella provincia pacificata di al Anbar “un atterraggio in mezzo al deserto”.

Un editoriale sul silenzio della stampa sui progressi realizzati dal generale Petraeus:

Le luci dei razzi illuminanti su Baghdad le abbiamo viste. La luce in fondo al tunnel facciamo finta di non vederla. Diciamo che Baghdad in questi anni ha fatto notizia. Guerra vinta. Regime abbattuto. Saccheggi. Disordine. Carneficina terrorista. Fosse comuni. Vittime civili e militari. Disperato tentativo di risalita con i mezzi della politica democratica in un paese in cui era totalmente sconosciuta. Elezioni e costituzione sotto le bombe. Sciiti e sunniti e curdi. Violenze settarie, grandi attentati ed elementi di guerra civile. Rapimenti e decapitazioni seriali. Torture e commissioni d’inchiesta del Pentagono. Pacifisti nelle strade del mondo. Coscienze inquiete per ogni dove. Crisi all’Onu dove Annan si scatenava contro la guerra illegale. Molto cinema d’impegno e denuncia. Molto giornalismo televisivo pashmina e denuncia. Molte passeggiate nel disastro malinconico di grandi inviati di guerra. Molte mozioni nei Parlamenti europei: mandiamo le truppe, teniamo le truppe, ritiriamo le truppe. Molto dolore per i costi umani. Molta indifferenza per chi ci ha fatto vedere come muore un italiano. Molto accoramento per ragazze di ritorno in djellaba e con una copia fresca del Corano per lanciare appelli al valoroso popolo iracheno sotto la protezione dei riscatti pagati dai servizi segreti occidentali via ong (organizzazioni non governative). Mobilitazione jihadista dispiegata. Grandi catture. Impiccagioni e processi. Molto horror show. Discussioni in punta di storia e di diritto su termini come resistenti, insorti, banditi, tagliagole, impaludamento, Vietnam. Scontri diplomatici all’arma bianca con il Quai d’Orsay di Chirac e Villepin. La corrosione del mito di Tony Blair a Londra. Raffinate ricostruzioni delle trame della lobby ebraica neoconservatrice impegnata a dirottare la politica estera americana nell’interesse di Israele. Grande crisi della presidenza americana impiccata alla sua straordinaria impresa politico-militare. Incandescenti divisioni di principio nell’establishment intellettuale di qua e di là dall’Atlantico. Ma ora non fa notizia questo “accomodamento senza riconciliazione”, questa “breccia nel muro del pessimismo” di cui parla Tom Friedman sul New York Times, questa buona notizia che sarebbe disonesto ignorare o esagerare portata dal surge di Bush e Petraeus, questo equilibrio trovato nel controllo del territorio, nella sicurezza, che è la premessa per nuovi passi avanti diplomatici e politici nel cuore tormentato della politica mondiale dopo l’11 settembre. In America se ne parla, da noi no. Bernardo Valli non passeggia più a Baghdad. Vittorio Zucconi non solfeggia più a Washington. E i direttori dei tg non sanno come offrire immagini di pacificazione purtroppo meno sanguinose della macelleria d’un tempo. Forza Capuozzo!

Infine, un'intervista ai consiglieri di politica estera di Rudolph Giuliani, candidato alla primarie repubblicane

Washington. Secondo i sondaggi, l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, si conferma candidato repubblicano di punta alle presidenziali del 2008. I dubbi sul fatto che le posizioni liberal di Giuliani su aborto, diritti dei gay e controllo sulle armi, come pure la sua vita coniugale (è al secondo divorzio), potessero costargli il consenso dei “values voters” si sono dissolti dopo il recente appoggio assicuratogli da Pat Robertson, fondatore della Christian Coalition. In realtà, la gran parte dei conservatori, tra cui il direttore del Weekly Standard, William Kristol, e il commentatore del Washington Post Charles Krauthammer, ritiene che le diversità di vedute sui temi sociali “sbiadiscano sino all’irrilevanza” se rapportate all’importanza della lotta al terrorismo. Il Foglio ha intervistato tre consiglieri dello staff per la politica estera di Giuliani per comprendere che cosa la sua eventuale vittoria potrebbe significare. Martin Kramer è senior fellow dell’Olin Institute di Harvard, Wexler- Fromer fellow al Washington Institute for Near East Policy e senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme; Norman Podhoretz è editor-at-large della rivista Commentary e autore di “World War IV: The Long Struggle Against Islamofascism” (Doubleday Books 2007, pubblicato anche dal Foglio); Michael Rubin è resident scholar all’American Enterprise Institute, direttore della rivista Middle East Quarterly ed ex consigliere politico del Pentagono per la Coalition Provisional Authority in Iraq dal 2002 al 2004. La successione a W. “Credo che la dottrina Bush rappresenti l’unica strategia praticabile per combattere la lunga guerra contro il fascismo islamico – dice Podhoretz – Spero e conto anche sul fatto che, una volta eletto presidente, Giuliani riprenda il discorso da dove Bush lo avrà lasciato”. Di avviso leggermente diverso Rubin: “L’importante è che non si crei un divario tra la retorica della Casa Bianca e le reali strategie politiche. Nella veste di sindaco, Giuliani ha ripulito New York, mostrando a tutti di saper tradurre i discorsi in fatti concreti. E’ con questo spirito che potremo ridare credibilità agli Stati Uniti. Personalmente, tuttavia, credo che la politica americana debba ancora dare la priorità alla libertà, ai diritti e alla lotta contro il terrorismo e l’ideologia islamista. Ciò detto, abbiamo appreso che le elezioni da sole non sono sufficienti, specie quando la società non è ancora pronta ad accoglierle”. Kramer, che si definisce uno “scettico della democratizzazione”, conviene con Rubin che “le elezioni non sono sufficienti. Mi è capitato di dissentire dal presidente Bush. Non credo che potrò mai dissentire da Giuliani: basta leggere il suo recente articolo su Foreign Affairs per convincersi che lui stesso ritiene sia pericoloso precipitarsi alle elezioni in un contesto dove prevale l’insicurezza”. Le elezioni palestinesi, sostiene Kramer, sono l’emblema di un processo che ha prodotto un risultato infelice: la candidatura e la vittoria delle milizie armate di Hamas: “La società civile nei paesi mediorientali è assai debole e poco ramificata. Senza una società civile, si può contare soltanto sui paladini dei ‘poveri’, ossia i gruppi islamisti. I quali si prefiggono come obiettivo primario la rimozione dell’influenza politica, militare e culturale degli Stati Uniti dal medio oriente”. “Consiglierei al presidente Giuliani – spiega Rubin – di elaborare le sue strategie sulla base di ciò che i leader mediorientali fanno e non soltanto su quel che promettono ai diplomatici americani. Ciò significa elaborare una strategia politica concreta ed efficace, che costringa la leadership iraniana a porre fine al programma nucleare, e affrontare una realtà innegabile: sia Fatah sia Hamas spalleggiano il terrorismo”. Kramer, ex allievo di Bernard Lewis, aggiunge: “Al fine di sostenere in futuro, per quanto possibile, la dottrina Bush, è essenziale mettere a frutto le lezioni di questi ultimi anni: la via per l’inferno è lastricata di cattive analogie. Il medio oriente non è l’Europa. L’Iraq non è la Germania. L’Afghanistan non è il Giappone né il Vietnam. Dobbiamo liberarci dalle analogie, che negli ultimi anni sono state usate in modo troppo disinvolto, e iniziare a basarci sulla conoscenza reale e l’esperienza diretta, è ciò che stiamo facendo in Iraq e altrove. Credo che Giuliani sia l’emblema di tale ‘prospettiva realistica’”. Le differenze con Hillary Stando ai sondaggi, Giuliani appare destinato a fronteggiare la principale candidata alla Casa Bianca del Partito democratico, la senatrice Hillary Rodham Clinton, la quale ha abbozzato il suo programma di politica estera in un articolo pubblicato da Foreign Affairs duramente criticato da Kramer sul tema del conflitto e del negoziato israelo- arabo-palestinese. “Hillary Clinton scrive: ‘Che gli Stati Uniti compiano progressi e riescano a strappare un accordo definitivo o no, il coinvolgimento costante dell’America può attenuare il livello di violenza e restituirci una certa credibilità nella regione’. Francamente, mi sembra un approccio assai singolare alla questione mediorientale. Per quale motivo, mi chiedo, ci si dovrebbe ostinarsi a fare qualcosa che non sta dando alcun risultato? E per quale ragione gli altri dovrebbero aiutarti e seguirti, se ammetti di essere intenzionato a rimanere coinvolto a prescindere dalle loro mosse? Ecco cosa intendo per ‘iperattivismo’. L’attivismo non è qualcosa di negativo, purché si scorga un’opportunità, si riscontri una reazione delle parti in causa e si noti che, elargendo capitale politico, si ottiene un ritorno. E’ avventato promettere un ‘coinvolgimento costante’ quando, di fatto, esso non porta da nessuna parte”. Kramer è convinto “dell’esatto contrario: il fatto di essere costantemente coinvolti nel tentativo di risolvere il problema senza approdare ad alcun risultato erode la nostra credibilità. Le parole di Hillary Clinton mi sembrano decisamente inopportune”. Podhoretz è ancor più abrasivo e, in particolare, irride alla decisione della senatrice Clinton di votare a favore dell’inclusione delle Guardie della rivoluzione iraniana tra le organizzazioni terroristiche, salvo poi fare un passo indietro proponendo una legge che impedisca a Bush di attaccare l’Iran senza l’approvazione del Congresso. “E’ la perfetta copia di John Kerry. Prima vota a favore, poi contro, poi ancora a favore e ancora una volta contro. A differenza di Hillary, Giuliani comprende il rischio di quella che io chiamo ‘la Quarta guerra mondiale’ e si è sempre detto propenso a lanciare l’offensiva contro i fascisti islamici”. Rubin aggiunge: “Giuliani conosce meglio la regione mediorientale e comprende le minacce che l’estremismo islamista pone all’occidente in generale e agli Stati Uniti in particolare. La fiducia della senatrice Clinton sul fatto che le promesse verranno mantenute è già stata messa alla prova in passato. Tra il 2000 e il 2005, all’apice del cosiddetto riformismo iraniano, gli scambi commerciali tra i paesi dell’Unione europea e la Repubblica islamica sono quasi triplicati. Ma la moneta forte non è servita quasi per nulla a moderare la leadership iraniana. Al contrario, ha contribuito a foraggiare il programma nucleare e la produzione di missili balistici. Tutto ciò che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha potuto appurare, alla luce della ‘shuttle diplomacy’ di Mohamed ElBa- per l’arricchimento dell’uranio. Limitarsi a parlare con i diplomatici iraniani, che, per quanto onesti, sono esclusi dai circoli decisionali della Guida suprema e delle Guardie della rivoluzione, non porterà alcun frutto”. Podhoretz confida in Giuliani perché “se noi occidentali vogliamo debellare la minaccia che il fascismo islamico pone nei confronti della nostra civiltà, dobbiamo comprendere la natura e la portata di tale minaccia, e lanciare un’offensiva contro di essa. Ciò implica il coraggio di intraprendere un’azione preventiva in determinate circostanze, e avvalersi di più strumenti, militari e no, per ‘bonificare il pantano’ in cui il fascismo islamico prospera, attraverso una definitiva democratizzazione del medio oriente. Giuliani comprende tutto ciò meglio di qualsiasi altro candidato e più di qualsiasi altro ha le doti caratteriali che fanno di un uomo anche un grande leader in tempo di guerra: coraggio, determinazione e ottimismo”. Kramer concorda: “Giuliani capisce che in questo momento ci troviamo nel mezzo, o forse addirittura allo stadio iniziale, di quella che egli chiama ‘la guerra scatenata dai terroristi contro l’America’. Credo che questa consapevolezza sia quasi del tutto assente in molti degli altri candidati alla carica presidenziale. Per questo è importante ricordare al popolo americano che, recandosi alle urne, non sceglieranno soltanto un presidente, ma il loro comandante in capo”. La minaccia principale La presenza al fianco di Giuliani di Rubin, Podhoretz e Kramer ha messo i liberal in allarme: Rudy avrà una strategia di politica estera che si potrebbe definire come “la dottrina Bush al fulmicotone”? Nuove iniziative militari in vista? Podhoretz risponde: “Io stesso, come il presidente Bush, vado ripetendo da tempo che, per vincere questa battaglia, dovremo avvalerci, laddove possibile, di strumenti di potere non militari (politici, economici e diplomatici), ricorrendo alla forza militare solo se necessario”. Ricordando i molti anni di esperienza diretta in medio oriente, Rubin afferma che “l’islam è una nobile religione, al cui interno però si annidano estremisti che sfruttano la ricchezza di petrolio per promuovere un’ideologia radicale e grondante odio. Giuliani capisce che, sebbene il 90 per cento dei mediorientali chieda forse soltanto di poter sfamare i familiari e garantire le migliori opportunità possibili ai propri figli, ci sono anche uomini e donne accecati dall’ostilità, che tentano di scardinare i diritti su cui la società occidentale fonda la propria libertà e, a tal fine, abbracciano il terrorismo e inseguono il progetto delle armi di distruzione di massa”. Kramer ricorda infine un’affermazione di Giuliani: “‘L’Iran non riuscirà a dotarsi dell’arma nucleare’. Su questo, è stato inequivocabile. Credo che niente possa spingere gli iraniani a scegliere la via della diplomazia meglio della consapevolezza che Rudy Giuliani sarà lì, pronto a sfidarli”

Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT