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Il Foglio - Il Sole 24 Ore - L'Opinione Rassegna Stampa
22.11.2007 Scetticismo e speranze su Annapolis
analisi a confronto

Testata:Il Foglio - Il Sole 24 Ore - L'Opinione
Autore: la redazione - Silvio Fagiolo - Stefano Magni
Titolo: «Per i repubblicani più duri Annapolis fa rima con Camp David - Ad Annapolis una pace che porti alla democrazia - Conferenza di Annapolis, scetticismo bipartisan»

Da pagina 3 del FOGLIO del 22 novembre 2007:

New York. La Casa Bianca e il Dipartimento di stato hanno ufficialmente comunicato data, programma ed elenco dei paesi che partecipano ai colloqui di pace tra israeliani e palestinesi ad Annapolis, in Maryland, a poco più di mezz’ora di macchina da Washington. E’ il primo tentativo diplomatico della comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti di trovare una soluzione al conflitto dopo il fallimento delle trattative di Camp David del 2000, quando all’ultimo istante Yasser Arafat rifiutò l’offerta del premier israeliano Ehud Barak e spense l’illusione di Bill Clinton. Il vertice si terrà martedì prossimo alla base militare navale di Annapolis, ma sarà anticipato il giorno precedente alla Casa Bianca da due incontri individuali di George W. Bush con il premier israeliano Ehud Olmert e con il presidente palestinese Abu Mazen. Seguirà una cena, sempre a Washington, ma al Dipartimento di stato. La conferenza si aprirà formalmente martedì mattina con un discorso del presidente americano e poi con l’intervento dei due leader mediorientali. In giornata ci sarà un incontro trilaterale, mentre il giorno dopo, di nuovo a Washington, Bush avrà altri due colloqui bilaterali con Olmert e Abu Mazen. Al vertice ci saranno i paesi della Lega Araba, compresi Arabia Saudita e Siria, i membri del G8 (per l’Italia ci sarà il ministro degli Esteri Massimo D’Alema), l’inviato in medio oriente Tony Blair, il segretario generale dell’Onu, i presidenti della Banca mondiale e del Fondo monetario e poi Norvegia, Australia, Brasile, Turchia, Cina e il Vaticano. Il governo israeliano, come gesto di buona volontà, ha annunciato il rilascio di 431 prigionieri palestinesi e ha consegnato ad Abu Mazen 25 mezzi blindati leggeri, ma a Washington non circola particolare ottimismo sull’esito della conferenza. Anzi, si parla già di un fallimento annunciato sia a destra sia a sinistra. L’Amministrazione Bush ha cercato di mantenere basse le aspettative, alimentando ulteriori dosi di pessimismo anche tra i liberal che per sette anni hanno accusato Bush di non volersi impegnare in iniziative di pace come questa. Anche se, ieri, il segretario di stato Condoleezza Rice ha rilanciato, dicendo che gli Stati Uniti si augurano che Annapolis possa contribuire alla risoluzione del conflitto entro la fine del 2008. L’obiettivo della conferenza è avviare le negoziazioni finali tra israeliani e palestinesi per risolvere le questioni sui confini e sulla sicurezza, oltre che sui rifugiati e su Gerusalemme, intorno alle quali si sono sempre impantanati i tentativi precedenti. La chiave di volta, dicono al Dipartimento di stato, è convincere il mondo arabo a sostenere il processo. L’obiettivo non è dei più semplici visto che è stato il mondo arabo ad aver rifiutato, nel 1947, la decisione dell’Onu di dividere la Palestina in due stati. La politica araba è sempre stata coerente a quella scelta, come dimostra il fatto che dal 1948 al 1967 non s’è curato di creare uno stato palestinese a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza, ancora privi di insediamenti israeliani. Anzi, come ha ricordato ieri l’ex diplomatico clintoniano Jeff Robbins, i paesi arabi hanno attaccato Israele e ancora oggi in maggioranza non riconoscono lo stato ebraico. Il consenso dei paesi arabi è fondamentale e Condoleezza Rice si è spesa moltissimo in questi mesi per riuscire ad averlo. Serve ad Abu Mazen, come scudo dalle accuse degli estremisti e di Hamas di essersi venduto al nemico. Serve ad Olmert, perché sa che il solo Abu Mazen non è in grado di garantire lo smantellamento delle reti terroristiche. Bush sta premendo sul re Abdullah perché l’Arabia Saudita partecipi ad Annapolis con il ministro degli Esteri e non con un suo sottoposto. Blair è volato a Riad con lo stesso obiettivo. Se ci riuscissero, sarebbe di per sé un segnale positivo, perché in altre occasioni, come alla conferenza di Madrid del 1991, il ministro degli Esteri saudita ha partecipato come osservatore. Sul piano interno, i candidati democratici alla presidenza e gli editoriali dei grandi giornali liberal non danno ancora grande importanza ad Annapolis, mentre gli editoriali conservatori del Wall Street Journal la giudicano pericolosa. I repubblicani rumoreggiano e considerano Annapolis una perdita di tempo e un tradimento della dottrina Bush. Anzi molto di più: pensano che la conferenza di Annapolis sia il disperato tentativo dell’Amministrazione Bush di ottenere un accordo qualsiasi, anche vago e senza garanzie che venga rispettato, esattamente come aveva fatto Bill Clinton alla fine del suo secondo mandato.

Sul SOLE 24 ORE Silvio Fagiolo scrive che

Israele non può aspettarsi di avere sia i territori che la pace. Ma nemmeno gli arabi possono cavarsela con i soli territori senza un pieno riconoscimento dello Stato di Israele.

E' la vecchia, benintenzionata, ma fallimentare, strategia dei territori in cambio di pace
Israele, sostiene infatti Fagiolo

deve ritirarsi dalla Cisgiordania, permettendo l'esistenza  di uno spazio contiguo e vitale, secondo una sicurezza che dipenda dalla stabilità politica del vicino e non dalla quantità di terra che si occupa

E ancora

la pace non può attendere che si sviluppi una democrazia araba, deve precederla e anzi potrà essere il maggior agente per innescarla, togliendo alle dittature mediorenatli uno degli argomento per restare al potere

L'articolo di Fagiolo non è antisraeliano, non deforma la storia (riconosce per esempio che l' accordo di Camp David venne "incautamente respinto" da Arafat).
Ma la sua lettura di fondo della realtà mediorentale appare irrealistica. Un accordo di pace potrebbe non essere sufficiente a garantire la sicurezza di Israele, senza garanzie contro il terrorismo.  E le dittature mediorentali non staranno a guardare mentre viene loro sottratto "uno degli argomenti per restare al potere". Cercheranno di rendere la pace impossibile, finanziando il terrorismo di Hezbollah, Hamas e degli altri gruppi.

Israele, prima di stipulare un accordo, dovrà verificare la credibilità e l'affidabilità dell'interlocutore. E la democratizzazione del Medio Oriente non dipenderà dal processo di pace più di quanto gli esiti di quest'ultimo dipendaono dalla fine delle tirannie mediorentali.

Da L'OPINIONE, un articolo di Stefano Magni:

Ci sarà anche la Siria al tavolo della pace di Annapolis. Alla conferenza che dovrebbe decidere il futuro di Israele e la nascita di uno Stato palestinese (a cui parteciperà anche l’Italia), è stato invitato, dunque, un regime che non ha mai riconosciuto la legittimità di Israele che, giuridicamente parlando, è ancora in guerra con lo Stato ebraico e che ospita a Damasco sia gli Hezbollah, sia il leader più estremista di Hamas, Khaled Meshaal. Alla stessa conferenza di Annapolis sarà presente anche l’Arabia Saudita che, non solo non ha mai voluto riconoscere Israele, ma è anche rivale della Siria di Assad. L’editorialista conservatore Frank J. Gaffney, su FrontPage Magazine, scrive che comunque vada a finire, la conferenza di Annapolis si concluderà con un insuccesso: “Se la conferenza riesce” - scrive Gaffney - “si avrebbe la nascita di un nuovo santuario per il terrorismo islamico (in Palestina, ndr), che sarà non solo una minaccia diretta a Israele, ma anche agli Stati Uniti. Sfortunatamente anche un insuccesso dell’iniziativa di Condoleezza Rice ad Annapolis sarebbe un gran brutto affare. Visto che il suo sforzo sta creando aspettative infondate tra i palestinesi e i loro alleati arabi, l’esperienza del passato ci suggerisce che un fallimento sarà preso come un pretesto per scatenare nuova violenza contro Israele”.

Impossibile negare che la Palestina non sia riuscita a risolvere il suo problema di fondo, quello di svolgere il ruolo di base di lancio per gli attacchi contro Israele. E non solo Hamas costituisce il problema, ma anche Al Fatah, il partito di Abu Mazen, al potere in Cisgiordania, l’interlocutore privilegiato di Israele che formalmente ha accettato il processo di pace. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non ha mai dimenticato di essere “Abu Mazen” (il suo nome di battaglia nell’OLP), sconfessando la legittimità di Israele ad esistere come Stato ebraico. Senza contare che la retorica sulla distruzione di Israele tramite la lotta armata senza compromessi è ancora al centro della propaganda palestinese, nelle scuole così come nei media, a Gaza così come in Cisgiordania. Quel che l’editorialista Gaffney chiama “zelo” di Condoleezza Rice, nel voler creare a tutti i costi uno Stato palestinese, potrebbe essere motivato dalla fretta: concludere un accordo prima delle prossime elezioni, basato sull’assioma classico dei “due popoli in due Stati”, senza porsi troppi problemi sul fatto che uno di questi due Stati non è una democrazia, è altamente instabile e potrebbe diventare un nuovo santuario per i terroristi.

Gli Israeliani come stanno vivendo tutto questo? L’editorialista di Haaretz Akiva Eldar teme che il governo Olmert affronti il summit di Annapolis con la stessa leggerezza con cui aveva preparato le operazioni militari contro Hezbollah nel 2006. Ci sono poche possibilità che l’Autorità Palestinese e i suoi alleati riconoscano Israele come Stato ebraico. Il commentatore di Haaretz parla da un punto di vista “di sinistra”, dunque si chiede che cosa Israele possa dare alla Siria e all’Autorità Palestinese di così determinante da indurre i due regimi a concedere un riconoscimento pieno e la fine delle ostilità. I commentatori “di destra”, invece, non credono affatto nella volontà araba di scambiare qualcosa per qualcos’altro. Piuttosto temono che il governo Olmert, su pressione degli Stati Uniti, si spinga molto in là nelle concessioni e accetti di dividere Gerusalemme, come già annunciato più volte negli ultimi due mesi. Se le concessioni fatte in passato (il ritiro dal Libano meridionale e da Gaza) hanno creato nuove basi di lancio per attacchi contro Israele, perché mai il disimpegno dalla Cisgiordania e la cessione di metà Gerusalemme all’Autorità Palestinese dovrebbe portare alla pace?

Per questo motivo, il Jerusalem Post ha pubblicato una nuova versione della “Lettera da Gerusalemme al mondo” scritta da Eliezer Whartman all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. La lettera aperta, rivolta all’Onu, recitava testualmente: “Io ho visto bombardare questa città per due volte da nazioni che si considerano civili. Nel 1948, mentre voi eravate indifferenti, ho visto donne e bambini fatti a pezzi, dopo che avevamo accettato la vostra proposta di internazionalizzare la città. (...) E poi il saccheggio selvaggio della Città Vecchia, il massacro sistematico, la deliberata distruzione di ogni sinagoga e di ogni scuola religiosa, la profanazione dei cimiteri ebraici, la vendita (condotta da governi profanatori) delle pietre tombali per la costruzione di pollai, caserme e anche latrine. E voi non avete detto una sola parola. (...) E quando le stesse cose avvennero 19 anni dopo (nel 1967, ndr) e gli Arabi scatenarono ancora un bombardamento indiscriminato sulla Città Santa, avete fatto qualcosa? Vi siete fatti vivi solo quando la città è stata riunificata. Solo allora avete protestato, avete parlato di ‘giustizia’ e della virtù cristiana del porgere l’altra guancia”.

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