Verso il nulla di fatto ad Annapolis, mentre si ignora la minaccia iraniana un'intervista allo storico Benny Morris e un commento di Angelo Pezzana
Testata:La Stampa - Informazione Corretta Autore: Francesca Paci - Angelo Pezzana Titolo: «“Il dilemma di Israele? Bombardare l’Iran” - La Conferenza di Annapolis»
Dalla STAMPA del 22 novembre 2007:
«Annapolis? Annapolis is nothing, è nulla». Seduto al tavolino di un affollato caffè di Gerusalemme, lo storico israeliano Benny Morris parla con tono sostenuto, come dalla cattedra dell’università Ben Gurion. Nel locale zeppo di avvocati con doppio cellulare, amici rumorosi, giovani coppie innamorate, cala il silenzio. Per quanto il vertice americano sia dato per morto prima di nascere gli israeliani un po’ ci sperano. E Benny Morris, riccioli ribelli e ampia camicia a quadri, è un’icona, uno che i gerosolimitani riconoscono quando passa per la strada. L’Egitto ci sarà. Forse anche la Siria. Non è possibile che alla fine esca fuori qualcosa di buono? «Con o senza l’Egitto Annapolis conta zero ai fini del processo di pace. Israeliani e palestinesi non hanno neppure deciso di cosa parlare. Entrambi sono meno disposti alla mediazione di 7 anni fa a Camp David, dove pure fallirono. Oggi per Israele il problema è l’Iran, i palestinesi alla lunga sono irrilevanti». Il coinvolgimento della Siria potrebbe servire a isolare l’Iran? «Non ne sono convinto. Assad può al massimo sganciarsi da Teheran ma non può bloccare la bomba iraniana né dissuadere i mullah dal progetto di distruggere Israele. La Siria è un attore degli equilibri mediorientali, utile ma non indispensabile. Israele è andato vicino a trovare un accordo con Hafez al Assad. Sia Rabin che Barak gli offrirono il ritiro dal Golan, lui disse no. Assad padre non era interessato alla pace ma ai riflettori internazionali, come Arafat. Il figlio Bashar è più debole». Ipotizziamo un’intesa con Damasco. Sarebbe una pace fredda come quella con l’Egitto, firmata da Sadat ma rifiutata dal popolo? «Il mondo arabo non ha mai accettato la leggittimità d’Israele. Anche Paesi “amici” come Egitto e Giordania lo considerano uno Stato assassino. Sadat non amava Israele, aveva paura che con l’atomica distruggesse l’Egitto e lo accettò. Ma né il suo governo nè quello di Mubarak hanno mai fatto nulla per mutare la mentalità del popolo, la pace sarà sempre fredda. Con i palestinesi è lo stesso. Arafat parlava di dialogo ma cresceva intere generazioni a dosi d’odio verso Israele, lo stesso che nutriva lui». La piattaforma di Annapolis è un foglio bianco. Da cosa partire? «Dei tre nodi, il più semplice da sciogliere è quello dei confini: con qualche aggiustamento ci si dovrebbe intendere sulla linea del ‘67. Poi c’è Gerusalemme, sulla cui divisibilità sono scettico. A Camp David Barak era pronto a cederla secondo i parametri di Clinton ma i palestinesi rifiutarono. Oggi le condizioni sono peggiori e Barak ha imparato che il compromesso non paga. Infine ci sono i rifugiati, un rebus insolubile». Addirittura? «Il mito del ritorno è parte viva dell’identità palestinese quanto la Terra Promessa lo era del sionismo. Ci sono tre generazioni di palestinesi cresciute con l’illusione d'invertire la marcia della storia. Non discuto se sia giusto, dico che per Israele ne va della sopravvivenza: se i profughi rientrassero scompariremmo, ci annienterebbero. E nessuno qui, neppure io, può accettarlo: morale o immorale che sia». Insomma, nessuna chance di pace? «No, a meno che gli arabi cambino atteggiamento». Nel saggio “Vittime” ricostruiva l’evacuazione dei villaggi palestinesi nel ‘48. Poi spiegò che era una misura necessaria: o noi o loro. In 60 anni non è cambiato niente? «Non molto. Allora Israele doveva decidere se salvare la vita di 700 mila ebrei o cacciare gli arabi: scelse la prima, l’opzione più “morale”. Se gli arabi fossero rimasti avremmo visto un secondo Olocausto. Anche i Paesi arabi mandarono via gli ebrei ma gli ebrei egiziani o marocchini erano sudditi leali». Il suo nuovo libro “La prima guerra d’Israele” (Rizzoli) afferma però che qualcosa da allora è cambiato, l’ascesa dell’islam politico. «L’islam è da sempre presente nella società araba. L’Occidente si sveglia ora ma la guerra del 1948 è il primo vero jihad». Come si risolve l’affare Iran? «Le opzioni sono varie, tutte impraticabili. Il massimo sarebbe che rinunciasse spontaneamente al nucleare. O che le sanzioni funzionassero, utopia senza l’aiuto di Cina e Russia. O ancora che il regime degli ayatollah cadesse, ma è troppo ricco per implodere. C’è la via americana: Washington attacca l’Iran e con otto settimane di bombardamenti aerei rade al suolo gli impianti. Solo che gli Usa sono impantanati in Iraq e poco propensi a nuove avventure. Il cerino è nelle mani d’Israele: possiamo scegliere se convivere con l’Iran atomico, e sarebbe folle, o annientarlo. Come? Le armi convenzionali non bastano e ci resta solo l’opzione atomica, milioni di morti, uno scenario catastrofico. Questo oggi è il vero dilemma israeliano, Annapolis è nulla».
Un commento di Angelo Pezzana sulla conferenza di Annapolis:
Se l‘obiettivo è la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele, non si può non rimanere allibiti di fronte al numero dei partecipanti che il 27 novembre si troveranno riuniti ad Annapolis, in quella che è stata definita “conferenza di pace in Medio Oriente”. Saranno infatti più di 50 gli interlocutori che si siederanno intorno a un tavolo a discutere per trovare quella soluzione che in questi sessant’anni il rifiuto arabo a riconoscere il diritto all’esistenza di Israele ha impedito di trovare.Oltre a Israele e Autorità palestinese, ci saranno il quartetto della Road Map più Tony Blair,la Lega araba con il suo segretario Abu Mussa, 17 paesi arabi, i membri del G8, Bush con Condi Rice quali padroni di casa. Nel timore che possano sentirsi soli, per buon peso sono stati invitati ancheAustralia,Brasile, Cina,Turchia, Città del Vaticano, Banca Mondiale ed il Fondo monetario internazionale. Grattando il fondo del barile, si è scoperto che mancava l’Organizzazione della Conferenza islamica, nota a livello internazionale quanto i pompieri di Viggiù, per cui è stata aggiunta immediamente all’elenco. Questa pletora di istituzioni, dovrebbe, in poche ore, tirare fuori dal cappello il coniglio che scoprirà come si farà la pace in Medio Oriente. Esprimere dubbi sulla sua riuscita, viste le premesse, non è remare contro, più semplicemente è essere realisti. Ma vediamo le posizioni dei due principali interlocutori, Ehud Olmert e Abu Mazen. Il primo è il più disponibile, la sua maggior preoccupazione è garantire ai cittadini d’Israele che il futuro stato palestinese non cada in mano a dei terroristi, come è successo con Gaza, dopo l’uscita di Israele due anni fa. Abu Mazen, con il suo governo, questo può solo augurarselo ma non garantirlo. Il potere di Hamas, anche in Cisgiordania, non solo a Gaza, è una realtà. In più, negli innumerevoli incontri tra i due, le posizioni, aldilà delle dichiarazioni ufficiali, sono rimaste distanti, persino più di prima. Abu Mazen, ad esempio, ha introdotto un nuovo rifiuto, quello di riconoscere l’ebraicità dello stato di Israele. Il che sta a sottintendere che anche se sarà lui a governare il futuro stato, il che è tutto da vedere, sarà un vicino che non riconoscerà Israele a meno che non se ne cambino i connotati fondanti. Il che è chiaramente inaccettabile. Con una partenza simile è inimmaginabile vederlo con Olmert intorno a un tavolo a ridisegnare i confini che dovranno separare Israele e Palestina. Di quale aiuto sarà poi la Siria a dipanare la matassa è facile prevederlo. La richiesta di tornate a possedere le colline del Golan, mai abitate da nessun siriano, che erano sempre servite unicamente quali basi per bombardare gli israeliani a valle, è priva di credibilità. Israele non amputerà mai una parte del suo territorio, che le appartiene anche da una valutazione solo geografica, per tornare allo status quo ante. La Siria non è la Svizzera, è uno stato terrorista, il cui sport, fino al 1967, era quello di uccidere israeliani dalle postazioni sul Golan, bambini compresi, come avvenne nella strage della scuola di Maalot. Quanto agli stati arabi presenti, riconoscano prima Israele, inizino normali relazioni diplomatiche, e poi si comportino come tutti gli stati democratici di questo mondo. Insomma, ad Annapolis, malgrado la sempre riaffermata volontà di Israele di arrivare ad un accordo con i vicini arabi, è probabile che ci troveremo di fronte ad un nulla di fatto. Tante buone intenzioni, finalizzate a coprire l’unico, attuale grande pericolo che minaccia la pace non solo in Medio Oriente ma nel mondo intero, l’Iran di Adolfo Ahmadinejad. Che soffia sul fuoco dell’arma atomica, mentre il mondo, tranne pochi leaders coraggiosi, si volta dall’altra parte e fa finta di non accorgersene.
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