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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.11.2007 L'ambiguo alleato pakistano
l'analisi di Bernard Henry Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Bernard Henri Lévy
Titolo: «I due volti del Pakistan: alleato e Stato canaglia»
Dal CORRIERE della SERA del 21 novembre 2007:

Il mondo in generale e gli Stati Uniti in particolare stanno scoprendo quel che numerosi osservatori si affannavano a dire da anni: se oggi c'è uno Stato canaglia fra gli Stati canaglia, se c'è uno Stato dispotico e al tempo stesso terrorista, minato dall'islamismo radicale e, per di più, marchiato da una fragilità preoccupante, questo è il Pakistan. Si tratta delle «zone tribali»? Della famosa zona grigia fra Afghanistan e Pakistan, dove il potere centrale rinuncia a far regnare la legge? No. Del Pakistan stesso. Quel Pakistan di cui gli Stati Uniti hanno fatto il perno della loro strategia nella regione e che tuttavia è, in quanto tale, uno Stato terroristico e al contempo di una instabilità letteralmente terrificante. È quel Pakistan ufficiale che, quanto a me, conosco da quasi quarant'anni, cioè dalla guerra del Bangladesh: solo ora il mondo comincia ad accorgersi che intere fasce dell'apparato di Stato (una frazione intera, comunque, dei suoi servizi segreti, il temibile Isi) sono sotto l'influenza di elementi legati ad Al Qaeda.
Fortezza. Il caso di Hamid Gul, ex direttore dell'Isi diventato, all'età della pensione, un turiferario non dissimulato di Bin Laden. Il caso di Mahmud Ahmad, uno dei suoi successori, che dirigeva l'Isi all'epoca dei fatti dell'11 settembre 2001 ed è fortemente sospettato di aver contribuito al finanziamento dell'attacco. Il caso di una moschea che ho visitato nel 2002 e che si chiama Binori Town: vera e propria città nella città, nel cuore di Karachi, all'epoca ospitava combattenti di Bin Laden e aveva accolto lo stesso Bin Laden bisognoso di cure mediche. Il caso, ancora, di Khaled Sheikh Mohammed, numero tre dell'organizzazione, il vero ideatore della strategia degli aerei suicidi: di lui non posso dimenticare che fu arrestato, nel febbraio 2003, al centro di Rawalpindi, la città gemella d'Islamabad che è, in linea di principio, il cuore e la fortezza del potere. Il caso, infine, di Omar Sheikh, l'uomo che rapì Daniel Pearl ed era il «figlio prediletto» di Bin Laden e contemporaneamente un agente dell'Isi, che si muoveva come un pesce nell'acqua all'interno della cerchia dei dirigenti, specialmente dei militari.
Ed evoco, solo perché non venga dimenticato, il caso di Abdul Qadeer Khan, l'Oppenheimer del Pakistan, inventore e detentore dei suoi segreti nucleari, il quale vendeva da anni, impunemente, la sua scienza alla Corea del Nord e all'Iran. Pearl morì forse perché si era interessato troppo da vicino al caso del «dottor Khan». Tutti sappiamo che, quando il Pakistan lo celebrava come uno dei Padri della Nazione, Khan era un militante del Lashkar i-Toiba, un gruppo terroristico appartenente al primo cerchio delle organizzazioni costitutive di Al Qaeda. E nessuno dubita più del fatto che, nel momento stesso in cui gli americani fingevano di cercare a Baghdad armi di distruzione di massa che sapevano di non trovare, quelle armi erano in Pakistan, in transito verso Teheran, Pyongyang e, forse, verso la zona dell'Afghanistan controllata dagli uomini di Osama.
Implosione. Durante un incontro, a Parigi, con Condoleezza Rice, essa era apparsa loquace, sorridente, preoccupata di non eludere nessuna delle domande che le ponevamo e di mostrarci il volto «aperto» del bushismo. Una sola volta venne meno alla sua preoccupazione. Una sola volta rifiutò di rispondere. Accadde alla fine della conversazione. Uno dei suoi interlocutori aveva tentato di interrogarla sul bizzarro legame con uno Stato che, già allora, continuava a dare segni della sua profonda corruzione. Non è almeno possibile — le chiedemmo — vincolare l'aiuto che voi gli date a condizioni politiche semplici: per esempio, dimostrarvi la sua volontà di risanare l'Isi? Offrirvi la garanzia che saranno severamente sanzionati gli scienziati che fanno «trasferte» in Iran o da Kim Jong-il? Accettare un sistema di «doppia chiave» che tenga chiuso il suo arsenale atomico e faccia così da sbarramento al rischio di vederlo cadere nelle mani dei folli di Dio? Il volto di Condy Rice si contrasse. Il suo sguardo si indurì. E non trovò nulla, rigorosamente nulla, da rispondere; ci chiese soltanto di passare subito alla domanda successiva. Sarei curioso di sapere oggi a quale conclusione sia giunta, sull'argomento, la responsabile della diplomazia americana. Mi piacerebbe sapere come viva, l'amministrazione Bush, la presente implosione di un sistema che ha la duplice particolarità di essere corrotto dal jihadismo e di avere un jihadismo poggiato su un arsenale nucleare che è la sua prospettiva e la sua fierezza. Un giorno, si dirà che questo è stato l'errore più incomprensibile della diplomazia americana contemporanea. Un giorno, si osserverà che questo errore è stato forse ancora più grave dell'appoggio ai talebani e ai fondamentalisti afghani all'inizio degli anni Ottanta.
Rumore e furore. Per il momento, c'è un altro Pakistan che è ancora possibile (ma per quanto tempo?) soccorrere e incoraggiare: quello che non vuole la dittatura militare né l'estasi millenaristica predicata nelle madras di Karachi. Doppia faccia di uno stesso volto, doppia faccia di uno stesso Giano a cui si oppone, in mancanza di meglio, il volto di Benazir Bhutto, figlia di Zulfikar Ali Bhutto, impiccato dal regime militare poco prima della guerra del Bangladesh, cioè proprio all'inizio di questa storia di rumore, di furore e, che Dio non voglia, di apocalisse in sospeso. È mezzanotte meno cinque, sull'orologio del secolo, a Karachi.

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