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Il Foglio Rassegna Stampa
16.11.2007 Chi lotta per la libertà e la democrazia, e chi no
le ragioni della politca americana in Medio Oriente, le velleità e i pericoli di quella italiana

Testata: Il Foglio
Data: 16 novembre 2007
Pagina: 0
Autore: Michael Novak - David Frum - la redazione
Titolo: «A che punto è la libertà - Pakistan - D’Alema in Libano per raccogliere i frutti della diplomazia di Kouchner»

Dal FOGLIO del 16, da pagina 3 dell'inserto, un articolo di Michael Novak sulla guerra in Iraq e sullo scontro con la tirannia e il fondamentalismo islamico

Riflettendo sul significato della libertà, tre grandi domande incombono davanti a noi. A conclusione di questo 2007, che cosa possiamo imparare dalle beffe e dalle tragedie che hanno accompagnato lo sforzo della Coalizione nel costruire la democrazia in Iraq? L’ampliamento della politica lincolniana che il presidente Bush ha annunciato nel suo secondo discorso inaugurale – la positiva promozione nel mondo intero del “governo del popolo, per mezzo del popolo e a favore del popolo” – si è dimostrato poco realistico? Qual è oggi la maggiore minaccia alla libertà sulla faccia della terra? Una condizione del successo del progetto democratico in Iraq non è stata raggiunta entro il 2006: cioè l’imposizione della sicurezza e il mantenimento dell’ordine pubblico nei centri urbani, a partire dalla capitale. Questa operazione è resa più dura dalla costante invasione di terroristi ostili attraverso i confini iraniani e siriani. Questi, a loro volta, si uniscono con i ribelli indigeni per impedire l’affermazione della democrazia. Per questi nemici della democrazia, nessuna atrocità è troppo terribile. Essi sono arrivati così in basso da effettuare pesanti bombardamenti di antiche e splendide moschee, care agli iracheni, si sono rallegrati dell’assassinio di imam e di fedeli nei giorni delle festività religiose e hanno inventato altri sistemi di barbari omicidi. E’ sempre più facile distruggere una democrazia che costruirla. Anche solo pochi uomini determinati possono minarne le fondamenta. Ciononostante, anche durante l’anno in cui al Qaida ha provocato più danni, gli iracheni hanno dichiarato di essere convinti che le loro vite sarebbero migliorate nell’immediato futuro. Un’indagine del giugno 2006 condotta dall’International Republican Institute ha rivelato che quasi la metà degli iracheni credeva che il futuro dell’Iraq sarebbe stato migliore nell’arco di un anno; un quarto credeva che le condizioni sarebbero state le stesse – né peggiori né migliori. Mentre il 41 per cento credeva che l’Iraq stesse andando nella giusta direzione, solo il 13 per cento considerava il ritiro dall’Iraq delle forze della Coalizione come la condizione prioritaria per portare il paese nella giusta direzione. L’80 per cento degli iracheni aveva fiducia nel governo presieduto dal primo ministro Nouri al Maliki. Un sondaggio più recente della Bbc/Abc segnala che, dopo la spietata violenza della rivolta del 2006, solo il 43 per cento degli iracheni pensava che la vita fosse migliore prima della guerra. In Iraq sono presenti molti partiti politici estremamente attivi. Sono nate più di 4.000 associazioni non governative, sia internazionali sia irachene. Dal giugno del 2003 queste associazioni hanno costruito e riparato 830 scuole e 337 strade, hanno lanciato 298 iniziative legate alla sanità e hanno apportato migliorie a 292 centri di produzione di energia elettrica. Inoltre, stanno contribuendo alla promozione dell’educazione civica, del rispetto dei diritti della donna, di iniziative contro la corruzione e per i diritti umani. Ma molto di questo lavoro si era interrotto alla fine del 2006. Ciononostante, in Iraq sono sbocciate molte istituzioni informali e sono attive molte associazioni della società civile, come non era mai accaduto durante i decenni del regime di Saddam. Tutti questi sviluppi sono parti cruciali del “progetto democratico”. La legge dell’associazione, ha scritto Tocqueville, è la prima legge della democrazia. Nei paesi democratici la scienza dell’associazione è la scienza madre; il progresso di tutte le altre dipende dal progresso di questa. Fra le leggi che governano le società umane ce n’è una che appare più chiara e precisa di tutte le altre. Affinché gli uomini restino civili o lo diventino, bisogna che l’arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni. Ciò che rende tale un popolo non è soltanto il fatto di essere una massa, ma è piuttosto una ricca, densa e variegata vita sociale antecedente e più importante delle istituzioni dello stato. Nuove automobili e altri beni di consumo su vasta scala hanno iniziato a essere visibili nei negozi, nelle strade e nelle case. Sotto il regime di Saddam, i mezzi indipendenti erano proibiti. Ma nell’Iraq libero nell’arco di soli tre anni sono nate 54 stazioni televisive, 114 stazioni radiofoniche commerciali e 268 organi di stampa indipendenti. Anche se la California è uno stato paragonabile all’Iraq per dimensione e popolazione, le scelte medie a disposizione dei “multiculturali” abitanti di Los Angeles sono meno varie di quelle che ci sono nella Baghdad di oggi. Inoltre, superando immensi ostacoli, con il riuscito processo a Saddam Hussein e con il verdetto di colpevolezza abbattutosi su di lui che ne ha decretato la condanna a morte per impiccagione, il sistema giudiziario iracheno ha mostrato il più chiaro segnale possibile di un’uguale giustizia davanti alla legge, per i potenti così come per gli umili. E’ probabile che la condotta del processo sia stata irregolare (non ultimo a causa delle acrobazie della difesa) e che sia stata necessaria un’immensa forza d’animo da parte di tutti i protagonisti del processo, gli avvocati della difesa e i pubblici ministeri, così come i giudici. Eppure è sembrato che tutti abbiano fatto il loro dovere. (…) Dalla caduta del regime di Saddam Hussein nell’estate 2003, sono molti e ammirevoli i risultati raggiunti dal progetto democratico in Iraq, in questo breve arco di tempo. Ciononostante, il flusso costante di attacchi terroristici al suo interno, finanziati e fomentati dai suoi vicini più stretti, la Siria e soprattutto l’Iran, potrebbe alla fine impedire che il progetto democratico dell’Iraq abbia successo. In questi anni il malvagio ribelle al Sadr ha dimostrato una pura e semplice ambizione, una crudeltà inaudita e una totale mancanza di rispetto della legge. Da solo, una volta radunato intorno a sé un esercito di più di 4.000 uomini (il suo Esercito del Mahdi, il messia islamico), minaccia talmente di allarmare i suoi nemici sunniti da spingere l’intera regione di Baghdad alla guerra civile. Misurare le dimensioni della tragedia che risulterebbe da un’aperta guerra civile non sarebbe facile, ma tutte queste umiliazioni e lo svolgimento sanguinoso di un esperimento democratico, un tempo nobile, sarebbero trasmessi in tutto il mondo dalla tv di al Jazeera. Chi in futuro desidererebbe allearsi con gli Stati Uniti in un progetto per costruire la democrazia? Da dove verrebbero gli alleati, almeno in quei luoghi in cui le autorità rifiutano ferocemente l’idea stessa di democrazia? Un cammello che cade attrae molte lame (si veda l’indispensabile libro di Mark Steyn “America Alone”). Naturalmente le condizioni dell’Iraq sono in molti sensi uniche. Al suo confine orientale si trova il suo antico antagonista, l’Iran, ai nostri giorni il principale finanziatore e la stanza di compensazione del terrorismo in tutto il mondo. Ricco, ambizioso e disposto al massimo di ferocia, l’Iran è spinto da una visione molto più sanguinosa rispetto alla costruzione della democrazia. Questa visione si compone di due parti. Il suo obiettivo più moderato è il ristabilimento dell’antico Califfato, vale a dire il governo musulmano unificato dalla Spagna e dal Portogallo a entrambi i lati del Mediterraneo e all’intero medio oriente, verso i grandi centri di insediamento musulmano in Indonesia, in Bangladesh, in India e nelle Filippine. Sono incluse nel sogno del Califfato la sottomissione, l’umiliazione e la tassazione di tutti coloro i quali rifiutino di riconoscere Allah, nella subalterna condizione conosciuta come dhimmitudine. Nella versione più estrema di questa visione, alcuni iraniani già immaginano la sottomissione di tutta l’Europa all’islam, tramite l’espansione demografica, la maggiore fertilità e l’abile intimidazione. Qualcuno prevede di arrivare alla sottomissione di nazioni nordiche come i Paesi Bassi, la Danimarca e la Svezia entro l’anno 2030. Nella visione ancora più estrema, il presidente iraniano ha farneticato di un olocausto nucleare che disintegrerebbe Israele e accelererebbe la fine del mondo, dopo la quale ritornerà, sulla punta della spada, il messia islamico assente da molto tempo. Dal marzo 2003 il fatto saliente in Iraq è che il suo popolo non ha rifiutato la democrazia, ma al contrario si è comportato spesso eroicamente sfidando le minacce di violenza e riversandosi ai seggi elettorali. E non solo una volta, ma per ben tre volte, durante i tre lunghi anni di elezioni piene di pericoli, un numero di persone mai visto prima si è presentato a votare. Questa stessa caparbietà suggerisce che una larga maggioranza degli adulti iracheni preferisce vivere secondo il principio di legalità, sotto un governo limitato e sotto governi che si formino e cambino attraverso il suo consenso. (…) Come Bush ha detto nel suo secondo discorso inaugurale: “Il grande obiettivo di porre fine alla tirannia è il lavoro concentrato di generazioni. La difficoltà dell’operazione non è una buona scusa per evitare di tentare… Alcuni hanno messo in dubbio l’appello globale alla libertà, sebbene questo periodo storico – quattro decenni caratterizzati dall’avanzamento più rapido della libertà che si sia mai visto – sia uno strano riferimento per questo dubbio… Non accettiamo l’esistenza della tirannia permanente perché non accettiamo la possibilità della schiavitù permanente”. Durante la sua carriera politica nel Texas e come presidente, Bush ha dimostrato molte volte di rispettare ciò che è possibile, spingendosi costantemente in avanti ma considerando le deviazioni e le battute d’arresto come circostanze che si rendono necessarie. La democrazia è un obiettivo moralmente degno, ma non è né un inflessibile imperativo morale né un letto di procuste. Temporeggiare, fare un passo indietro per andare avanti in un tempo più propizio, spingere quanto più possibile: questa era precisamente la tattica di Abramo Lincoln riguardo alla schiavitù (al punto che Lincoln ha persino messo gli stati del Sud contro Stephen Douglas perché se gli Stati Uniti avessero scelto la schiavitù, avrebbero potuto anche scegliere di non far rispettare il Fuggitive Slave Act. In questo modo Lincoln ha utilizzato un’argomentazione apparentemente a favore della schiavitù per realizzare il suo obiettivo di lungo periodo, cioè la sconfitta della schiavitù). La democrazia richiede una politica di compromesso – un passo avanti per mezzo del quale nessuno guadagna tutto ciò che desidera, ma ognuno guadagna almeno un po’ – e una politica rispettosa delle beffe e delle tragedie, della legge delle conseguenze non intenzionali e del principio che il meglio è il nemico del bene. La democrazia è il contrario dell’utopia: è un sistema umile e imperfetto, guidato da una moralità imperfetta e parziale, ma è un sistema che spinge in avanti verso il bene. A volte questo è soltanto il miglior bene ottenibile attualmente, un senso piuttosto miBush ha concentrato la sua attenzione nel far funzionare la democrazia in almeno una delle instabili nazioni dell’incendiario scenario mediorientale, sapendo che un solo esempio si sarebbe diffuso in maniera irrefrenabile. La fuga iniziale di Gheddafi, l’agitazione civile in Iran (particolarmente fra i giovani) e “la rivoluzione dei cedri” nel Libano hanno fatto sembrare credibile la sua politica. Così verso la fine del 2006, non era ancora disposto a rinunciare al suo “grande disegno”. Contro una tremenda ridicolizzazione, gli insulti e il puro odio viscerale dei suoi nemici politici e di elementi significativi della stampa, il presidente ha dovuto rimanere duro e fermo nelle sue decisioni come un trapano dalla punta costellata di diamanti. E’ andato avanti, a volte da solo. Gli amici mi scrivono che è stato “altezzoso, arrogante, poco disposto ad ascoltare gli altri, inflessibile, fuorviato e stupido”. Un’altra descrizione degli stessi fatti è che il presidente è stato insolitamente coraggioso e ha mantenuto una profonda serenità d’animo. Invece di cedere, ha deciso di affrontare a sua volta l’attacco ben elaborato nei consero del bene, ma nobile e maturo. (…) confronti della democrazia da parte di jihadisti pieni d’odio. Ha ordinato altre cinque brigate di truppe di combattimento scelte per Baghdad, con alcuni elementi previsti per la provincia di Anbar. Questi erano i due punti più nevralgici per l’insicurezza e la paura dei civili. Nel frattempo, il primo ministro iracheno Maliki ha promesso il doppio delle brigate dell’esercito iracheno, ognuna delle quali con gli effettivi al completo per più del 90 per cento, e le ha inviate. Quasi immediatamente si è vista la differenza. Secondo il nuovo comandante della coalizione, il generale Petraeus, il migliore esperto dell’esercito sulla guerra di controinsurrezione, si sono dovuti affrontare tre obiettivi iniziali: primo, il disarmo dell’esercito del Mahdi di Sayyd al Sadr a Sadr City. In secondo luogo, si sono dovuti stabilire quasi 80 centri di comando in 80 differenti zone di Baghdad, in modo che le forze armate irachene e americane potessero mettere in sicurezza questi quartieri vivendovi e fornendo i servizi medici e altra assistenza di base alla popolazione. In terzo luogo, si è dovuta spezzare di colpo la retroguardia dell’occupazione straniera della provincia di Anbar da parte di al Qaida. Solo così i 25 sceicchi tribali della zona si sono persuasi a parteggiare per la nuova democrazia e contro gli invasori assassini. Tutti dovrebbero essere in grado di giudicare quanti progressi sono stati realizzati verso questi tre obiettivi. Tuttavia c’è da aspettarsi un massiccio contrattacco di al Qaida: questo è il momento della verità. (…) Il terrorismo islamico è una nuova forma di totalitarismo politico. Sebbene si nasconda dietro a una forma selettivamente primitiva di islam, e una volta che la sua maschera di autoinganno viene strappata, risulta evidente che si tratta di un movimento soprattutto politico. E’ un movimento politico, militare e totalitario, come è evidente nelle sue espresse ambizioni, nelle sue energiche motivazioni, nei suoi fini e nei suoi metodi. Non ha alcun rispetto per le moschee musulmane, per le funzioni religiose, per gli imam o per i fedeli; li distruggerà indiscriminatamente se questo sarà nel suo interesse militare provvisorio. Questo movimento politico è alimentato dal feroce risentimento verso quelli che i suoi membri percepiscono essere stati cinque secoli di sottomissione alle società occidentali moralmente inferiori, il cui solo vantaggio provvisorio è la superiorità tecnologica. Inoltre, secondo la testimonianza di uno che è diventato terrorista in gioventù, e ha poi aperto gli occhi, questo movimento politico-militare alimenta le calde frustrazioni sessuali dei suoi giovani maschi, convinti che sia sbagliato anche masturbarsi, mentre sono tormentati ogni giorno dalle visioni di 70 giovani vergini che li spingono al martirio (per di più, la pratica della poligamia assicura che non avranno mai abbastanza donne musulmane a sufficienza). Dal punto di vista negativo, l’ambizione jihadista è ridurre all’impotenza la civilizzazione della libertà. Da quello positivo, la sua ambizione è costruire un nuovo Califfato dalla Spagna al Mare arabo e da lì verso oriente alle terre dell’Asia che abbondano di musulmani. Rispetto a un secolo fa, le terre dei musulmani hanno un’enorme nuova ricchezza proveniente dalle riserve petrolifere e, più di recente, dalle armi nucleari. Perciò, in maniera più audace, i suoi visionari terroristi ora immaginano di ridurre l’Europa, la Gran Bretagna e l’America del nord alla sottomissione ad Allah, con la conversione forzata o con l’imposizione della dhimmitudine. La dhimmitudine è un sistema di vassallaggio e di umiliazione sistematica, per mezzo del quale i sottomessi (indegni di diventare musulmani) effettuano il pagamento annuale di speciali tasse, per sovvenzionare la loro “protezione” da parte del Califfato. I jihadisti più arditi affermano che ridurranno gran parte dell’Europa al vassallaggio entro il 2030, attraverso la triplice pressione della continua immigrazione, della fertilità demografica e della radicalizzazione in tutta la regione dei giovani maschi. (…) L’Iran potrebbe essere la capitale finanziaria e il centro terrorista e militante del movimento internazionale della Supremazia musulmana. Decennio dopo decennio, sempre più paesi si sottomettono alla legge della sharia, che vige in Iran, in Sudan, in metà della Nigeria (mentre l’altra metà trema di paura) e che i talebani avevano imposto all’Afghanistan. Le versioni politicizzate e militarizzate dell’islam continuano a diffondersi a livello internazionale, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in Indonesia, in Danimarca e in Svezia, in Francia, in Germania, in Argentina e altrove, in una certa misura sconosciuta in piccole e nascoste comunità. La demografia è il destino; le democrazie di successo e rispettose delle leggi forniscono un caldo rifugio e l’immigrazione fornisce la propulsione internazionale alla costante infiltrazione nelle società democratiche. Le popolazioni musulmane in tutto il mondo aumentano e si moltiplicano. Così come fanno le comunità di musulmani all’interno di sempre più nazioni. Non si stanno ora ripresentando in maniera pacifica, sotto il sole estivo e una piacevole brezza, i minareti che Edward Gibbon ha immaginato una volta erigersi sopra Oxford; e la trionfante invasione musulmana della Francia che era stata fermata da Carlo Martello a Tours nel 732 d.C.? Tredici secoli dopo la sorprendente vittoria di Carlo Martello, il cavallo forte della militanza islamica può aspettarsi che la legge della sharia metta da parte il cavallo debole della Common Law, non soltanto negli uffici della motorizzazione, dell’immigrazione, negli uffici multiculturali e nell’università, ma in sempre più ambiti della vita di tutti i giorni. Entro il 2032, come una rana che non abbia mai provato l’acqua calda che arriva lentamente all’ebollizione, importanti stati europei potrebbero benissimo stare vivendo sotto i minareti come, nella sua acuta immaginazione, Edward Gibbon aveva da molto tempo previsto. In occidente esistono molte persone che non vedono il fascismo islamico come minaccia. Essi negano che l’occidente sia ora impegnato nella più terribile forma di guerra che abbia mai affrontato, contro il nemico più segreto e più spietato. Come le rane nella pentola, essi negano di essere in pericolo. Considerano la guerra in Iraq, come Al Gore ha detto nel dicembre del 2006, “il peggiore errore strategico nella storia degli Stati Uniti”. Non vedono saggezza strategica nel fermare il risentimento che cova fra i giovani nelle comunità islamiche in tutto il mondo, indirizzando l’idealismo giovanile verso visioni sociali creative, sviluppando nuove culture islamiche basate sul principio di legalità, sull’uguaglianza di tutti e su economie dinamiche, creative e libere, per mettere al sicuro la democrazia. Le culture islamiche sono oggi inondate dalla ricchezza del petrolio e inorgoglite dal possesso di bombe nucleari. La loro debolezza si trova nel loro fallimento nell’ispirare l’iniziativa economica e l’amore democratico per il principio di legalità. Esse non fanno nulla per la dignità degli individui nelle loro iniziative e per proteggere i loro diritti individuali. Ecco perché tante nazioni musulmane, brulicando di intrighi interni, si agitano a cercare nuovi regimi attraverso l’assassinio. Incoraggiano così la dominazione dei tiranni. Per tutte queste deformazioni, il sogno della democrazia e l’impresa creativa è un affascinante contrappeso. Il successo o il fallimento dell’esperimento democratico in Iraq è, quindi, di importanza storica per il mondo. In questo paese sarà deciso qual è il cavallo forte, che per natura attrae l’obbedienza delle persone, e qual è il cavallo debole, che si inginocchia in timida attesa dei coltelli scintillanti.

Da pagina 1 dell'inserto, un articolo di David Frum sulla situazione in Pakistan:

Il colpo di mano di Pervez Musharraf in Pakistan rappresenta, al tempo stesso, la crisi dell’agenda Bush sulla democrazia e la giustificazione di tale agenda. Ecco la crisi. Musharraf era un vecchio alleato di guerra statunitense sul territorio. Ripudiò i talebani, che avevano tratto benefici dal sostegno pachistano, e autorizzò l’accesso delle forze americane sul territorio nazionale. La guerra in Afghanistan del 2001 non avrebbe potuto essere tanto efficace e decisiva senza il supporto di Musharraf. In cambio, il Pakistan ha conquistato aiuti economici e legittimazione a livello internazionale. Bush ha posto fine alla maggior parte delle sanzioni decise dopo i test nucleari del 1989. Il presidente americano ha pensato molte volte che Musharraf fosse un Ataturk dei giorni nostri, un leader autoritario ma secolare che preparava il paese alla modernità e alla democrazia. Tutte queste speranze sono andate distrutte. E’ vero, Musharraf ha aperto l’economia pachistana e ha fatto sì che la crescita accelerasse. Da quando si è impossessato del potere, nel 1998, le esportazioni sono esplose e il prodotto interno lordo pro capite è cresciuto del 25 per cento. E’ anche vero che Musharraf sembra essere meno corrotto dei politici civili, soprattutto rispetto al principale rivale, Benazir Bhutto. Inoltre, ha sistematicamente ripulito dai fondamentalisti islamici forze armate e intelligence. Detto questo, il giudizio complessivo sul leader pachistano è negativo. I risultati della crescita economica non sono mai stati redistribuiti e il sistema scolastico pachistano rimane un mattatoio. Meno della metà della popolazione sa leggere, ma la quota scende a un quarto se si parla delle donne. La bassa qualità della forza lavoro attira solo investimenti stranieri a scarso valore tecnologico: in India si costruiscono i software, in Pakistan si producono filati. L’estremismo religioso rimane forte. Al Qaida continua a trovare rifugio nelle zone di frontiera. Molti sospettano, probabilmente a ragione, che a Musharraf la situazione stia bene così com’è. Il giorno che l’ultimo terrorista morirà, finirà pure l’utile compito di Musharraf. Il generale lo sa, e gli ultimi terroristi rimasti sono in qualche modo autorizzati a rimanere nella zona. Non ci sono Lech Walesa a Islamabad Il che porta al secondo tema, la giustificazione dell’agenda americana. Il Pakistan ha vissuto sotto le leggi militari la maggior parte dei sessant’anni trascorsi dalla conquista dell’indipendenza nazionale. Anche i leader civili vivono uno status di scarsa legittimazione: sono stati eletti in contesti fortemente condizionati da frodi, da intimidazioni e dalla fedeltà ai clan. Il risultato è chiaro: non solo il Pakistan è rimasto uno dei paesi più poveri dell’Asia, ma è anche divenuto uno dei meno stabili dell’intera regione. La bomba atomica non gli ha portato sicurezza. Al contrario, ha condotto il paese a un passo dalla guerra per due volte, prima nel 1998 poi di nuovo nel 2001. L’India non fa difetto di problemi e fallimenti, ma sotto un governo regolarmente eletto è sempre riuscita a far ruotare il potere pacificamente, con una sola eccezione nel 1947. L’estremismo politico e religioso esiste in forme molto problematiche, tuttavia è stato spinto molto più ai margini rispetto a quanto sia accaduto in Pakistan. E’ emersa una classe media istruita e la crescita economica è forte e diffusa. Secondo le previsioni, nel 2020 l’India sarà la quarta economia del mondo, superando qualsiasi paese europeo. Se il Pakistan assomigliasse di più all’India, l’Asia meridionale – e di conseguenza il resto del mondo – sarebbe un posto più tranquillo. Invece Pakistan e Arabia Saudita agiscono come se fossero le più fertili incubatrici dell’estremismo islamico. Che cosa fare adesso? Molti repubblicani e democratici sembrano essere d’accordo. Musharraf ha lasciato perdere la propria legittimazione distruggendo la propria utilità. E’ essenziale che gli Stati Uniti non lascino gestire a lui i rapporti tra Washington e Islamabad. Ciò significa pressare in maniera forte e visibile sulla necessità di nuove elezioni, guardando oltre Musharraf per trovare una nuova leadership militare. Gli Stati Uniti dovrebbero far sentire la propria voce per favorire nuove elezioni, senza romanticizzare l’opposizione pachistana: non ci sono Lech Walesa a Islamabad. Allo stesso tempo, l’intesa tra Stati Uniti e Pakistan non dovrebbe essere sacrificata. Gli aiuti dovrebbero continuare, anche quelli militari, perché un taglio potrebbe incidere negativamente sui rapporti con la leadership futura e con quella presente. Dobbiamo ricordare che le elezioni sono solo un tentativo, il primo passo per un Pakistan più stabile. In passato le elezioni hanno solo ratificato il potere dei padroni e dei clan, non c’è motivo di ritenere che le cose possano cambiare. Sostenere la libertà del Pakistan significa costruire istituzioni: scuole secolarizzate, campagne anticorruzione, leggi basate sul diritto, libertà di stampa e trattati di libero scambio che non interessino solo l’occidente ma anche l’India e il Bangladesh, per incoraggiare tutta l’Asia meridionale alla pacifica integrazione. Questo lavoro impegnerà generazioni e il suo successo dipenderà certamente dai pachistani. Ma si tratta del compito più importante che gli Stati Uniti siano chiamati a svolgere in questo momento. Su questo, una volta tanto, democratici e repubblicani devono per forza convergere.

Infine, sempre da pagina 3 dell'inserto, la politica estera italiana sull'Iran e in Libano, tra amicizia per i tiranni e fallimenti:


Alla vigilia del dibattito sulle sanzioni all’Iran nel Consiglio di sicurezza presieduto dall’Italia, previsto per dicembre, alla Farnesina suscitano perplessità le dichiarazioni del sottosegretario Bobo Craxi: ha manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dal diplomatico egiziano e lodato pubblicamente l’approccio costruttivo del rapporto con il nucleare degli ayatollah. Intanto Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, membri del gruppo dei 5+1 che non include l’Italia, hanno iniziato l’offensiva diplomatica a Vienna. E’ Parigi a guidare le danze con una documentazione che denuncia la mancanza di chiarezza delle informazioni offerte da Teheran all’Aiea. Francia e Stati Uniti lavorano a un questionario aggiuntivo che dovrà essere inviato all’Iran nei prossimi giorni. Bye bye Libano. Per dodici mesi il ministro D’Alema ha abituato le feluche a entusiasmarsi davanti a “successi internazionali” dalle basi non sempre così solide. Sul Libano, per esempio, le domande che fino al mese scorso erano solo sussurrate ora si vanno espandendo fino alla stanza del viceministro con delega al medio oriente, Ugo Intini. L’Italia sembra sempre meno protagonista nella tutela degli affari di Beirut. Il 21 novembre il Parlamento si riunirà per eleggere il presidente e il patriarca maronita Sfeir sta cercando i potenziali candidati cristiani (lo prevede la Costituzione). Il collega-alleato-rivale del capo della diplomazia italiana, il francese Bernard Kouchner, prosegue la mediazione parigina avviata quattro mesi fa. Pare infatti che Sfeir abbia ceduto alle pressioni dell’inviato francese Jean-Claude Cousseran indicando tre candidati: i moderati Nassib Lahoud e Boutros Harb e il generale Michel Aoun, leader del Movimento dei Liberi Patrioti, principale alleato di Hezbollah. D’Alema dovrebbe volare in Libano domani, ma alla Farnesina c’è chi si chiede se avrà davvero il coraggio di partire per raccogliere un successo di Parigi.


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