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Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2007 I successi di David H Petraeus...
... e gli insuccessi di Shlomo Ben Ami

Testata: Il Foglio
Data: 15 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Amy Rosenthal - Rolla Scolari - Daniele Raineri - Christian Rocca
Titolo: «Bozza di Annapolis - Bozza islamista - Attacchi in calo, ex nemici alleati, al Qaida in fuga. Nuovo Iraq - Sull’Iraq aveva ragione McCain, liberal in ritirata con i loro piani di ritiro»

Stupisce un po' leggere sul FOGLIO del 15 novembre 2007 l'articolo di Amy Rosenthal che presenta con toni elogiativi l'ex ministro degli Esteri israeliano  Shlomo Ben-Ami, autore di alcuni dei peggiori fallimenti della politca estera del suo paese( ha preso parte nel 2000 ai negoziati di Camp David) . Ben Ami ora sostiene l'opportunità di un negoziato con Hamas, che rifiuta l'esistenza di Israele.
La sostiene con una curiosa argomentazione:
"Hamas e Israele hanno alcuni elementi in comune: entrambi non sono capaci o intenzionati a sottoscrivere un accordo definitivo che preveda due stati. Israele lo vorrebbe, ma non ne è in grado perché il massimo di quel che possiamo concedere non sarà mai il minimo accettabile per i palestinesi. Dato che Hamas non è intenzionato a riconoscere la soluzione dei due stati, credo che Israele possa promuovere con quelli di Hamas il piano di convergenza di Olmert".

Ma la disponibilità di Hamas alla hudna (tregua) con Israele, è condizionata dall'organizzazione terroristica al ritiro israeliano esattamente entro i confini difficilmente difendibili del 1967. Hamas è disposta a concedere a Israele molto meno della pace (in realtà, soltanto un intervallo tra due guerre) a un prezzo che Israele non può pagare.

Ecco il testo:

Gerusalemme. Shlomo Ben-Ami segue da anni il processo di pace israelo-palestinese. Ha preso parte alla Conferenza di Madrid del 1991 e nel 2000, in qualità di ministro degli Esteri israeliano, ai negoziati di Camp David tra l’allora premier israeliano Ehud Barak e Yasser Arafat. “I palestinesi sperano di ricavare dal summit di Annapolis (fine mese, ndr) un documento quanto più completo ed esaustivo che sancisca una soluzione o una serie di principi su tutti i temi centrali, compresa la questione di Gerusalemme e dei profughi – dice al Foglio Ben-Ami – Gli israeliani sperano che la conferenza di Annapolis dia vita a un documento più generico. Per loro si tratta soltanto di un traguardo nel lungo cammino, anziché di uno spartiacque, e a me pare che sia proprio così. A essere realisti, ad Annapolis non si troverà un accordo su un ventaglio di principi molto vincolanti”. Secondo Ben-Ami, gli israeliani sono meno convinti dell’Anp che Annapolis possa portare a un compromesso. “Siamo diventati più scettici. Questa è una situazione che abbiamo già vissuto senza avere fatto passi avanti. C’è poi un’altra questione, ovviamente, legata alla credibilità della controparte palestinese. Quando siamo andati a Camp David pensavamo di negoziare con qualcuno in grado di mantenere la parola. Arafat poteva stare ai patti, ma non ne aveva alcuna intenzione. Oggi il presidente Abu Mazen sembra intenzionato a stare ai patti, ma c’è molto scetticismo riguardo alla possibilità che egli riesca effettivamente a farlo”. Nel suo libro “Palestina. La storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana” (Corbaccio 2007), Ben-Ami scrive: “Non credo che il fallimento di Camp David debba essere attribuito esclusivamente alla imprevidenza e all’estremismo di Yasser Arafat”. Clinton “non fu capace di sensibilizzare i governi arabi […] e non costruì solide ed efficaci fondamenta internazionali per sostenere e legittimare a livello globale il suo accordo di pace”. Oggi, secondo lo studioso, l’amministrazione Bush sta facendo i conti con lo stesso problema. “Clinton fu incapace di ingraziarsi il mondo arabo e di fare pressioni sulle parti in causa per una serie di ragioni. Anzitutto perché, come presidente, era già un’anatra zoppa e poi perché all’epoca dei negoziati di Camp David, nel 2002, il mondo arabo era decisamente meno propenso a un accordo di pace israelo-palestinese rispetto a oggi. Nel frattempo abbiamo assistito all’ascesa del fondamentalismo e del terrorismo islamico e dell’Iran. Tutte minacce pericolose alla stabilità dei regimi arabi che, di conseguenza, hanno posto le condizioni per un accordo di pace israelo-palestinese, oggi più che in passato”. Su George W. Bush, Ben-Ami scandisce: “Mi chiedo se sia intenzionato o no a investire ciò che rimane del suo scarso capitale politico per dare vita a una svolta epocale, da cui scaturirebbero passi avanti in termini di proposte di collaborazione”. Una tesi controcorrente su Hamas E’ sulla questione di Hamas che emergono i dubbi più salienti dell’ex ministro Ben- Ami sulla linea dell’Amministrazione Bush. L’intellettuale israeliano si è schierato a favore di un dialogo tra Israele e le nazioni occidentali e l’organizzazione terroristica che ha occupato Gaza lo scorso giugno. Nel chiarire la sua posizione, Ben-Ami afferma: “Non nego che vi siano numerose pecche nell’atteggiamento di Hamas, ma occorre incoraggiare i suoi adepti al dialogo politico, anziché relegarli in un angolo, ciò che implicherebbe un ritorno al terrorismo. Sorprendentemente, poi, Hamas e Israele hanno alcuni elementi in comune: entrambi non sono capaci o intenzionati a sottoscrivere un accordo definitivo che preveda due stati. Israele lo vorrebbe, ma non ne è in grado perché il massimo di quel che possiamo concedere non sarà mai il minimo accettabile per i palestinesi. Dato che Hamas non è intenzionato a riconoscere la soluzione dei due stati, credo che Israele possa promuovere con quelli di Hamas il piano di convergenza di Olmert”. Ben-Ami guarda con ottimismo, insomma, ad Annapolis? “Sono un cauto ottimista”, risponde, aggiungendo subito: “Sono ottimista perché credo che non sarà una débâcle. Tuttavia, non sopravvalutarei il mio ottimismo: Annapolis non porterà a una svolta epocale. Darà l’impressione che qualcosa si muove: il processo di pace fa passi avanti”.

Di seguito, un articolo di Rolla Scolari sul progetto di riforma dello Stato egiziano avanzato dai Fratelli muslmani:

Il Cairo. I Fratelli musulmani egiziani hanno presentato una bozza di programma del movimento. Il documento non ha solo messo in allarme osservatori laici e detrattori del gruppo, bandito dal 1954 in Egitto, ma formalmente tollerato. Molti islamisti moderati o giovani sostenitori della Fratellanza hanno criticato il testo. Tre punti hanno sollevato indignazione e un dibattito acceso a livello giornalistico e accademico, soprattutto all’estero. Nonostante la Costituzione ponga la sharia, la legge coranica, come fonte della legislazione, i Fratelli musulmani parlano dell’istituzione di un consiglio di religiosi, eletto, che approvi le leggi e la loro compatibilità con la sharia. Immediato è stato per molti il paragone con l’Iran dei mullah. Inoltre, la bozza bandisce cristiani e donne dalla presidenza. La Fratellanza, nata nel 1928, ha da sempre evitato di mettere per iscritto un programma. Il documento arriva nel mezzo di una dura repressione da parte del regime: incarcerazioni e processi militari per molti membri. Coincide anche con la nascita di un dibattito, negli Stati Uniti, sulla possibilità di aprire un dialogo con gli islamisti. A giugno, il New York Sun ha rivelato che l’Amministrazione Bush starebbe valutando la possibilità di un approccio verso i Fratelli musulmani, soprattutto in seguito alla vittoria alle urne palestinesi di Hamas. Il Bureau of Intelligence and Resarch del Dipartimento di stato ha tenuto un incontro con i rappresentanti dei servizi sulla questione. A inizio anno, il National Intelligence Council ha commissionato a Robert S. Leiken, del Nixon Center, un rapporto sulla Fratellanza. Lo stesso Leiken, con Steven Brooke, ha scritto sul numero di marzo/aprile di Foreign Affairs un saggio dal titolo “I Fratelli musulmani moderati” in cui s’interroga sulla necessità di un dialogo con il gruppo. Ma la bozza, con i suoi elementi nettamente antidemocratici, è stata considerata da molti analisti un errore strategico da parte del movimento. Il numero due dei Fratelli musulmani, Mohammed Habib, nonostante l’annuncio di possibili emendamenti al testo, continua a difenderla: “La presidenza deve essere per un maschio musulmano, abbiamo scelto così e non faremo retromarcia”. “C’è una contraddizione con quello che i Fratelli hanno detto recentemente sulle riforme – spiega al Foglio Samer Shehata, professore di Arab and Middle East Politics alla Georgetown University – Ma è vero che nelle loro dichiarazioni non pensano a un pubblico straniero, ma alla strada egiziana e certe cose, quelle scritte, sono accettabili dalla maggior parte degli abitanti del paese, musulmani”. “Mostrano il loro vero volto” Il testo ha raffreddato molti osservatori e attirato critiche. Hazim Saghieh, analista libanese, scrive sul quotidiano panarabo al Hayat che la bozza prova l’incapacità degli islamisti di “capire” il mondo moderno. “Se l’ayatollah Ruollah Khomeini fosse vivo oggi celebrerebbe l’espansione della sua visione islamista”, ha commentato Mohammed Elmenshawy, direttore del sito Taqrir Washington, in una dura invettiva sul Christian Science Monitor: “I Fratelli musulmani mostrano il loro vero volto”. Per Ahmed Abdallah, collaboratore di Islam Online, ex membro della Fratellanza, l’intera discussione sulla bozza si riduce a chiacchiere da bar: “Di cosa stiamo parlando? Della bozza di piattaforma di un partito che non c’è?”. Per quanto riguarda il consiglio di religiosi, spiega al Foglio, “qual è il suo compito? E’ eletto, non eletto? Se eletto, come i membri del Parlamento, perché deve esistere al di fuori del Parlamento visto che già c’è in Egitto un Comitato parlamentare per gli Affari religiosi? Se invece si trattasse di un consiglio non eletto, allora sarebbe istituzione superiore alla volontà del popolo e non potrebbe esistere in uno stato civile. Cerchiamo di essere chiari: stiamo parlando di uno stato religioso, islamico? Allora la volontà del popolo non ha più importanza”. Sul bando di cristiani alla presidenza, spiega Abdallah, “non esiste più il concetto di califfo. L’opinione del presidente non è quella finale. Dobbiamo definire quello di cui stiamo parlando: dello stesso regime autoritario che c’è oggi o di altro? Il problema è il sistema: se parliamo di uno stato democratico e funzionante, la leadership è collettiva e non importa chi si trovi alla presidenza”.

Un articolo di Daniele Raineri sui progressi della strategia americana in Iraq:

L’Iraq è un paese capovolto. Le vecchie regole imparate fin qui, in quattro anni di guerra, ora cominciano a correre a rovescio. Prima sunniti e sciiti erano forze da tenere separate. Nel nuovo Iraq stanno invece dimostrando di saper collaborare su questioni cruciali, anche se escono da un periodo di scontri e di violenze incrociate che ha fatto migliaia di morti. Lo scorso 8 novembre si sono incontrati capi tribali sia sciiti sia sunniti ad al Bessam, pochi chilometri a ovest di Baghdad. Circa 350 uomini hanno celebrato pubblicamente la nascita di un fronte congiunto: i clan collaboreranno nella stabilizzazione della regione e anche nella caccia ai fanatici di al Qaida. Per l’occasione è stato fatto arrivare un invito pure agli americani. “Siamo stati chiamati con poco preavviso, alle otto della sera prima,”, dice Brian Coppersmith, colonnello della 101a divisione paracadutisti (l’unità da cui arriva il generale David H. Petraeus, comandante dei soldati americani in Iraq). “Noi americani faremo da facilitatori. Assisteremo e tenteremo di dare una priorità alle questioni trattate nei loro incontri: prima sicurezza, riconciliazione e servizi essenziali, poi il resto”. Dal summit è uscita anche una dichiarazione di appoggio al governo eletto di Baghdad e in programma ci sono già incontri con alcuni ministri. Nel nuovo Iraq ci sono alleanze anche più sorprendenti. Il generale Petraeus ha ricevuto alcuni luogotenenti di Moqtada al Sadr, il leader carismatico dell’Esercito del Mahdi, fino a poco tempo fa considerato dal Pentagono “il nemico più pericoloso dei nostri soldati, più pericoloso persino di al Qaida”. I miliziani sciiti lavorano al fianco di ufficiali americani per discutere operazioni di sicurezza. Il portavoce di Petraeus, il colonnello Steve Boylan, ha confermato: “Il comandante non ha incontrato direttamente Moqtada al Sadr e non ha preso alcun impegno con lui. Ma ha preso contatto con gente della sua organizzazione, come parte degli sforzi per la riconciliazione”. La diminuzione vistosa della violenza nella capitale, secondo gli ufficiali americani, è dovuta anche alla decisione di Moqtada di combattere soltanto sul fronte politico. Ora gli uomini di Sadr e gli americani hanno un nemico in comune: i cosiddetti “gruppi speciali”, squadre irregolari un tempo allineate con Sadr che hanno deciso – con la sponsorizzazione del regime iraniano – di ignorare il cessate il fuoco e di continuare gli attacchi. Il nuovo Iraq è un paese dove le statistiche, che per lungo tempo sono state disastrose, cambiano direzione. Ad agosto sono morti 84 soldati americani. A settembre sono morti in 65. A ottobre 38. Nella provincia di al Anbar – grande come mezza Italia, negli anni scorsi si contavano 80 attacchi al giorno – c’è stata la prima settimana senza nemmeno un morto, né americano né iracheno. Così le cattive notizie ora devono essere verificate due volte. Il 30 ottobre il settimanale americano Time ha scritto che l’orribile scoperta di venti cadaveri decapitati a Baquba nella provincia di Diyala mette in questione l’efficacia delle operazioni americane. Salvo scoprire che la storia, secondo il giornale iracheno Aswat Aliraq, secondo le informazioni della Coalizione e anche secondo la polizia locale è stata inventata e passata ai giornalisti. Anche l’agenzia Reuters ha segnalato l’errore. La guerriglia sunnita è spaccata. Sui forum dei siti islamisti le colonne sunnite si rimpallano accuse feroci di crudeltà gratuita o di “tradimento”: “Abbiamo visto molti cadaveri decapitati nelle strade di Ramadi quando siete passati voi di al Qaida – scrive l’Esercito islamico dell’Iraq in un comunicato furioso – ma nemmeno uno era un americano”. “Se stiamo perdendo in Iraq come è successo in Afghanistan– risponde il leader dei binladenisti iracheni, Abu Omar al Baghdadi – è perché ci sono musulmani traditori come voi”. Finiti i processi reciproci per deviazionismo, le fazioni sono passate alle armi. A ottobre l’Esercito islamico, che raccoglie i resti disorganizzati del partito Baath di Saddam Hussein, ha dato battaglia ad al Qaida. Più di sessanta i morti. Gli uomini di al Baghdadi hanno abbandonato da tempo la capitale, dove riuscivano a portare i loro colpi più devastanti contro la popolazione civile. Ora provano a raggrupparsi nelle regioni rurali, per lanciare nuovi attacchi nelle città del nord. E’ come se al Qaida – che lo scorso settembre dichiarava il centro del paese “Emirato islamico” – ora fosse geograficamente messa all’angolo, costretta a nascondersi sui monti Hamrin, vicino al confine con l’Iran, e nella provincia di Ninive. Il comandante Petraeus è deciso “a non diminuire la pressione”. Per questo è stata lanciata l’operazione Iron Hammer, che segue la fuga degli estremisti verso nord. In dieci giorni, sono stati catturati 200 sospetti e sono stati scoperti diversi depositi di armi ed esplosivo New York. Al Congresso americano ricomincia il balletto sul finanziamento della guerra in Afghanistan e in Iraq, ma un grande giornale liberal come il Washington Post ieri ha fatto le pulci al “pinocchismo” dei candidati presidenziali del Partito democratico, i quali nei comizi dicono di voler porre fine alla guerra, malgrado poi i loro piani prevedano che le truppe resteranno in Iraq almeno fino al 2013.

E uno di Christian Rocca sui riflessi della situazione irachena sulla campagna elettorale americana:

Le timide ma sostanziali novità positive provenienti dall’Iraq, ottenute grazie alla nuova strategia militare e politica di George W. Bush e del generale David Petraeus che i democratici avevano pronosticato come una ricetta per il disastro, invece hanno cambiato lo scenario politico. L’opinione pubblica resta contraria alla guerra, anche perché nonostante i successi sul campo il 2007 è l’anno in cui sono morti più soldati americani in Iraq. Ma gli americani non sembrano condividere l’idea dei leader democratici di accelerare la sconfitta, ritirandosi precipitosamente. Al Congresso, invece, i democratici hanno scommesso sulla sconfitta, spiegando che la guerra era già persa e che altre truppe non sarebbero mai state capaci di cambiare l’inerzia della missione. Ora che le cose sul campo sono cambiate in meglio, i democratici sono rimasti spiazzati, mentre la tendenza dell’opinione pubblica si è invertita, peraltro anche tra i liberal. Sono aumentati gli ottimisti e sono scesi del 12 per cento, ora sono al 45, gli elettori di sinistra convinti che la guerra stia andando “molto male”. Il nuovo clima potrebbe favorire John Mc- Cain, il più coerente e antico sostenitore del cambiamento di strategia militare in Iraq. Fino a poco tempo la sua campagna elettorale presidenziale sembrava finita, travolta dal suo eccessivo entusiasmo per il piano Petraeus. Ora invece è tornato in corsa in New Hampshire e David Brooks, sul New York Times di martedì, ha ricordato come McCain, in fondo, sia “l’unico vero grande uomo in corsa per la Casa Bianca”. Bush, intanto, ha chiesto più soldi, 190 miliardi di dollari entro Natale per le operazioni in Afghanistan e Iraq e la Camera e Senato a maggioranza del Partito democratico sono disposti a concedergliene soltanto cinquanta, ma a patto che la Casa Bianca cominci a ritirare subito le truppe e con l’obiettivo di porre fine ai combattimenti entro il dicembre 2008. Bush, come al solito, minaccia il veto presidenziale e i repubblicani hanno i numeri per bloccare già in partenza la proposta democratica. Questa è la quarantunesima volta che dall’inizio dell’anno il Congresso democratico prova a fermare o a modificare la gestione della guerra, e finora il risultato è stato di quaranta a zero per Bush. Trentanove volte la leadership del partito democratico non è riuscita ad approvare in entrambi i rami del Congresso le sue risoluzioni anti Iraq. Nell’unica volta in cui ce l’ha fatta, non ha raggiunto la maggioranza qualificata per superare il veto di Bush. Se anche questa volta, come è probabile, la proposta di legge non dovesse passare, c’è già una soluzione a portata di mano che consente ai democratici di continuare a denunciare la guerra, evitando però di essere accusati di non voler finanziare le truppe. Lo ha spiegato il leader al Senato del Partito democratico, Harry Reid: se il Pentagono sarà a corto di fondi, potrà usare i 500 miliardi di dollari di aumento del budget militare non legati all’Iraq che il Congresso ha concesso martedì. Harry Reid, presentando un nuovo rapporto secondo cui il costo dell’intervento militare in Iraq sarebbe salito a 800 miliardi di dollari e raggiungerà i 3.500 miliardi se l’impegno durerà ancora altri dieci anni, ha detto che “non ci possiamo più permettere questa guerra”, cambiando strategia comunicativa nella speranza che l’opinione pubblica americana possa scuotersi, se non per gli aspetti etici o geopolitici della guerra, almeno per il suo costo economico. Il punto è che oggi il gradimento degli elettori americani per la performance congressuale dei democratici è ancora più basso di quello già rasoterra per Bush. La sinistra radicale considera poco più che inetti i capi del partito, mentre la maggioranza degli elettori vede e giudica l’inefficacia della loro azione e soprattutto la loro indisponibilità a tenere conto dei miglioramenti della situazione sul campo. Ora, approfittando della pausa natalizia, i democratici studieranno una nuova strategia politica che tenga conto non solo della situazione in Iraq, ma anche di ciò che accade in America, dove un sondaggio Pew svela che soltanto il 16 per cento degli elettori pensa che “l’Iraq” sia la notizia principale del giorno.

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