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Il Manifesto Rassegna Stampa
14.11.2007 I terroristi attaccano e Israele non si difende
la "pace" secondo Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 14 novembre 2007
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Annapolis, la Livni gela gli ottimisti»

Israele non vuole uno Stato palestinese che sia la base di attacchi terroristici contro il suo territorio. Sembrerebbe ragionevole, ma per Michele Giorgio è un attentato alle già scarse possibilità di raggiungere un accordo di pace ad Annapolis.
Se ne deduce che secondo lui Israele dovrebbe firmare una "pace" che permetta ai terroristi di continuare a colpirla.

Le organizzazioni terorristiche hanno settori propriamenti militari e settori che si dedicano alla propaganda e conquistano il favore della popolazione fornendo servizi sociali.
Per Israele, dunque, la lotta
al terrorismo deve colpire anche questa fabbrica del consenso alla violenza.
Sembrerebbe una conclusione inevitabile, ma Giorgio ne stravolge il senso scrivendo  che "per Israele" il terrorismo "si manifesta in molteplici forme, anche in attività politiche e sociali  e non solo nella organizzazione e attuazione di azioni armate".

I lanci di razzi kassam contro i civili israeliani continuano, come continua la faida tra Hamas e Fatah.
La prima organizzazione ha preannunciato che farà quanto è in suo potere per far fallire la conferenza di Annapolis, settori della seconda minacciano di riavvicinarsi alla prima e di riprendere lla via della violenza.
Sembrebbe allora che le esercitazioni militari israeliane in vista di un escalation di scontri con i palestinesi in Cisgiordania siano una preparazione  a far fronte a una possibile offensiva terroristica. Che servano all'autodifesa, non all'attacco.
Ma per Giorgio è vero il contrario: Israele "prepara la guerra". Anche le esercitazioni per i soccorsi in caso di "caduta" (così scrive Giorgio) di razzi katyusha in Galilea sarebbero "giochi di guerra"
 .

Ecco il breve testo di questo concentrato di distorsioni, faziosità e pregiudizi:

Il convegno «sull'anti-terrorismo» organizzato dal Centro Interdisciplinare di Herzliya è sempre un'occasione ghiotta per farsi un'idea precisa dei giochi in atto, nascosti dalla retorica della diplomazia. E anche quest'anno non sono mancati gli «spunti» interessanti. Ieri il ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, a proposito dei negoziati con i palestinesi in vista dell'incontro del 26 novembre ad Annapolis, ha detto ai partecipanti che la «lotta al terrorismo» viene ben prima dello Stato indipendente che i palestinesi invocano da decenni. Sono perciò avvisati il capo dei negoziatori palestinesi Abu Alaa e il presidente dell'Anp Abu Mazen: lo status futuro dei Territori occupati verrà negoziato in tempi stretti ma, in ogni caso, se prima i palestinesi non lotteranno contro il «terrorismo» - che secondo Israele si manifesta molteplici forme, anche in attività politiche o sociali e non solo nella organizzazione e attuazione di azioni armate - lo Stato indipendente di Palestina non si farà. Lo ha ribadito anche il premier Ehud Olmert per rassicurare i coloni israeliani in Cisgiordania ai quali ha annunciato che il suo governo potrebbe fare alcune «concessioni». Una visione opposta a quella di Abu Mazen, che ieri dalla Turchia ha ripetuto che «Se si riuscirà a raggiungere la pace, non ci saranno più guerre e atteggiamenti ostili e tutti i popoli della regione vivranno nella sicurezza e nella stabilità». Il suo punto di vista sarà preso in considerazione ad Annapolis? L'opinione pubblica palestinese non ci crede. In casa Anp comunque conoscono bene le posizioni israeliane e Abu Mazen nei giorni scorsi ha accettato la condizione-capestro posta da Israele, ovvero l'attuazione della prima fase del piano Road Map, che include, appunto, la lotta dei palestinesi al «terrorismo». Da parte sua Abu Alaa si mostra ottimista. Sostiene che i colloqui con la Livni fanno registrare, nonostante gli ostacoli, dei «progressi». Eppure il suo collega Saeb Erakat, ha riferito, proprio ieri, che i negoziati sino ad oggi non sono andati oltre il preambolo di quella Dichiarazione conclusiva congiunta che israeliani e palestinesi dovrebbero leggere e sottoscrivere tra due settimane in terra americana. E mentre si parla di pace, si prepara la guerra. Le forze armate israeliane condurranno la prossima settimana esercitazioni in cui verrà simulata un'escalation di scontri con palestinesi in Cisgiordania. Giochi di guerra si sono già visti ieri al nord, in Galilea. Il Comando del Fronte Interno ha controllato il livello di preparazione delle squadre di soccorso e dei medici in caso di caduta di Katyusha, come è avvenuto durante la guerra contro il Libano dell'estate 2006. I palestinesi però sono troppo impegnati a combattersi tra di loro per rendersi conto della posta in gioco. Sono oltre 200 gli attivisti e simpatizzanti di Fatah arrestati lunedì notte nella Striscia di Gaza nel corso di una vasta operazione lanciata dalla Forza Esecutiva di Hamas contro gli organizzatori della manifestazione di massa di due giorni fa a Gaza city in memoria di Yasser Arafat, che hanno visto la polizia islamica sparare sulla folla e uccidere sette persone, tra cui almeno due adolescenti, e ferirne 85. Le due parti si scambiano accuse durissime. Fatah parla di «repressione» e «crimini odiosi» compiuti da Hamas. Il movimento islamico ripete che sono stati i colpi esplosi da cecchini di Fatah, appostati sui tetti, a dare il via alla sparatoria. Ieri, in una Gaza vuota e paralizzata dallo sciopero in segno di lutto proclamato da Fatah, centinaia di persone hanno partecipato ai funerali di alcune delle vittime di lunedì, tra cui figurano due ragazzi, Ibrahim Ahmad, 14 anni, e Ahmad Qdaih, 15 anni, e un uomo di 67 anni, Muhammad Masri. Quattordici feriti ieri sera erano ancora in ospedale, alcuni in terapia intensiva.

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