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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Elena Loewenthal Scrivere di sé 13/11/2007

Scrivere di sé                                   Elena Loewenthal

 

 

Einaudi                                            Euro 14,50

 

 

 

 

“Non trovo qualche pace che nel pensiero del suicidio, e non tutti possono, purtroppo, suicidarsi”. Barboso, ipocondriaco, tagliente e, va da sé, immensamente narcisista: nella galleria di ebrei sull’orlo (e nel pieno) di una crisi di nervi, proposta da Elena Loewenthal, l’eterno aspirante suicida Umberto Saba occupa un posto d’onore. Una vera ossessione, questa della morte, ma striata di una saggezza sorniona e scaramantica, tanto che è difficile districarsi tra sofferenze vere e coquetterie di chi vuol sentirsi a tutti costi al centro dell’attenzione.

 

 

“Una persona tanto più soffre quanto più è narcisista”, scriveva Saba nel 1955. Un modo per rivelare qualcosa del proprio animo, senza però dire come un mediocre dramma esistenziale riuscisse a trasformarsi in grande poesia. A questo punto il teatro un po’ meschino dell’io si trasforma in letteratura? E poi, se questo luogo esiste, come lo si può chiamare in ebraico? Come l’hanno chiamato, nelle loro lingue, gli ebrei della diaspora?

 

 

Basta con i falsi pudori. Se dev’essere la prima persona singolare, che lo sia in tutta la sua grammaticale impudenza, vero mantra di autogratificazione. “Di che religione siete?” domanda un interlocutore di passaggio a Woody Allen. “Beh! – risponde questi – Sono nato ebreo ma poi mi sono convertito al narcisismo”. Fede antichissima, se è vero che il primo vanitoso della storia sarebbe stato, guarda un po’, Adamo.

 

 

Lo specchio in cui il primo uomo si scruta è nientemeno che la voce di Dio, che lo rimprovera. Si scopre nudo e poco manca che se ne vanti: “La tua voce ho sentito nel giardino e ho avuto paura. Perché sono nudo, io! Così mi sono nascosto”. Un “io” smisurato, questo di Adamo, che vale da solo un’intera autobiografia, e che tutti ci portiamo appiccicato addosso.

 

 

Ma insomma, Adamo si nasconde oppure no? E poi, perché Eva non dice nulla? Inoltre, siamo presi da un dubbio atroce: ma Adamo era ebreo? Non c’è dubbio che con Dio parlasse in ebraico, anche se non doveva avere molta altra scelta, essendo quella la lingua internazionale dell’Eden.

 

 

Per essere veramente ebreo gli mancava, tuttavia, un dettaglio, ovvero un pronome, quello di prima personale plurale: il “noi” a cui aggrapparsi e da cui fuggire disperatamente. Infatti, è solo con patriarca Adamo che comincia la fuga da un’identità collettiva, quella della minacciosa Ur dei Caldei, in cerca di una nuova sicurezza.

 

 

“Come, te ne vai di casa, la Ur del “noi” e trovi un altro noi?”, scrive Philip Roth. A pensarci bene, buona parte del narcisismo ebraico cresce come un’erba impertinente tra questi due “noi”. Quello degli altri, a cui non si può – o non si vorrebbe – più appartenere, e il “noi” di un noi stessi così difficile da portarsi addosso.

 

 

Non sarà un caso che parecchi dei personaggi del libro scelgano l’amplificazione dell’io, nel tentativo di sottrarsi al gruppo, pure ben consapevoli dell’impossibilità di farlo. Se Saba, semiserio, avrebbe voluto “aiutare gli ebrei a non sentirsi più ebrei”, Philip Roth proclama di rifiutare “la tirannia del “noi”….e tutto ciò che “noi” ti vuol ficcare in testa”.

 

 

Si sa che la vita, e ancor più la letteratura, è soprattutto una questione di grammatica. Col pronome giusto si possono fare miracoli, e addirittura trovarsi belli, ancorché nudi, davanti allo specchio della pagina.

 

Giulio Busi

 

Il Sole 24 ore

 

 


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