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Il Foglio Rassegna Stampa
13.11.2007 "La resa non è possibile"
la visione politica di John Bolton, ex ambasciatore americano all'onu

Testata: Il Foglio
Data: 13 novembre 2007
Pagina: 3
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Dalla Corea all’Iran “arrendersi non è un opzione”, scrive Bolton»

Dal FOGLIO del 13 novembre 2007:

New York. “Surrender is not an option – La resa non è possibile”, è il titolo del libro di memorie di John Bolton, il più falco dei falchi, il più duro dei duri, il più unilateralista del circolo Bush, di cui ha fatto parte fino all’anno scorso, fino al momento in cui è diventato chiaro che il nuovo Congresso a maggioranza democratica, grazie anche a qualche complicità repubblicana, non l’avrebbe mai confermato alla carica di ambasciatore americano all’Onu. Il titolo non è soltanto la filosofia di vita di Bolton – uno che alla domanda su quale fosse la politica americana sulla Corea del nord nuclearizzata ha risposto prendendo un libro dal titolo “La fine della Corea del nord” e dicendo: “Questa”. Il titolo è anche un avvertimento alla Casa Bianca di George W. Bush, oltre che a quella del suo successore, perché avere fiducia nella trattativa con gli ayatollah iraniani o con il dittatore nordcoreano, sostiene Bolton, equivale ad arrendersi anzitempo, ma la resa non è appunto un’opzione possibile. Sono due le frasi chiave del libro, come ha sottolineato Michael Ledeen sul Wall Street Journal: “La realtà è che l’Iran non abbandonerà mai volontariamente il suo programma nucleare, e una politica centrata sull’idea contraria non è soltanto illusoria, ma anche pericolosa, è la strada per l’Olocausto nucleare” e “Proprio come gli italiani si sono occupati di Mussolini e i rumeni di Ceausescu, un giorno il popolo nordcoreano avrà la possibilità di occuparsi di Kim Jong-il. La sua morte sarà sporca e spregevole, come la sua vita e il suo regime, e sarà esattamente ciò che si merita”.
Bolton non ce l’ha soltanto con Iran e Corea del Nord, guarda con sospetto anche alle manovre russe e cinesi, detesta l’inefficienza delle Nazioni Unite, non si fida degli europei e accusa i diplomatici di professione del Dipartimento di stato di sabotare la politica estera dei presidenti repubblicani. Per cambiare rotta invoca una “rivoluzione culturale” sia a Washington sia all’Onu. Bolton non è un ottimista, crede che le grandi istituzioni internazionali e il Dipartimento di stato non siano in grado di affrontare i problemi dei nostri tempi. Suggerisce riforme radicali per l’Onu basate sul principio che si debba guadagnare i soldi degli stati membri e invoca quindi contributi finanziari discrezionali, non obbligatori, oltre alla libertà di poter finanziare organizzazioni e associazioni alternativi, capaci di fare meglio dell’Onu.
Quando è uscito dall’Amministrazione, Bolton si è sentito “finalmente libero” di dire ciò che pensava, anche se non è che da fedele servitore di Washington si sia mai nascosto dietro le buone maniere dettate dai manuali del politicamente corretto. Eppure, ricorda Bolton, quando Condoleezza Rice gli ha chiesto di lavorare alla risoluzione Onu che l’estate scorsa ha posto fine alla guerra tra Israele ed Hezbollah, per la prima e unica volta della sua carriera è stato “sul punto di rifiutare un ordine” del suo capo.
Non c’è molto spazio per il gossip nel libro, a parte un commento sessista di Colin Powell sulla Rice, secondo il quale Condi si farebbe guidare più dai suoi “ormoni” che dalla sua mente. “Surrender is not an option”, come scrive il Wall Street Journal, si concentra sulle idee e sulle linee politiche dei protagonisti, oltre che sulle manovre all’interno dell’apparato governativo americano. Bolton ripercorre tutte le volte che è stato in disaccordo con Colin Powell, Richard Armitage e Condoleezza Rice, ma non fa mai mancare il rispetto e l’ammirazione per il loro servizio al presidente e al paese.
Quanto a Bush, Bolton è convinto che nell’ultimo anno abbia imboccato una via pericolosa, avviando il dialogo con gli iraniani e fidandosi di una promessa di Pyongyang. “Ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata”, ha detto Bolton a una conferenza all’American Enterprise Institute, dove ora lavora. Bolton non è stato soltanto un membro di spicco dell’Amministrazione Bush, ma come dice lui stesso anche un “difensore dell’America alle Nazioni Unite e all’estero”. Si devono a lui lo smantellamento del network nucleare dello scienziato pakistano Abdul Qadeer Khan e la Proliferation Security Initiative, cioè l’alleanza multilaterale per fermare la corsa alle armi di sterminio. I dettagli biografici su cui Bolton si ferma nel libro sono interessanti, perché raccontano la storia del figlio di un pompiere repubblicano di Baltimora che riesce ad arrivare a Yale e che si abbevera al pensiero conservatore di Barry Goldwater e Robert Bork. Bolton non è ebreo né neocon, malgrado spesso si pensi il contrario, è un conservatore tradizionale e realista che ha mosso i primi passi al dipartimento di Giustizia dell’era reaganiana e col pragmatico James Baker.
Nel libro Bolton spiega che la campagna denigratoria nei confronti di Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Feith e Libby “aumenta i rischi che si commettano ulteriori errori prima della fine del secondo mandato di Bush”, ma promette che non si sottrarrà alla battaglia e, come una nave da guerra sotto il fuoco nemico, continuerà “a stare in movimento e a sparare”. (chr.ro)

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