Il dissidente iraniano Amir Fakhravar vince l'Annie Taylor Award Oriana Fallaci se lo aggiudicò nel 2005
Testata: Il Foglio Data: 13 novembre 2007 Pagina: 3 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Il dissidente Fakhravar, torturato dai mullah, vince l’Annie Taylor Award»
Dal FOGLIO del 13 novembre 2007
Nell’universo dei dissidenti iraniani, una definizione che abbraccia figure molto diverse fra di loro come Mohammed Shabastari e Ali Montazeri, teologi come Abdolkarim Sorush e Mohsen Kadivar, giornalisti come Akbar Ganji e giuristi come il Nobel Shirin Ebadi, Amir Fakhravar ha la fama del duro. Quest’anno sarà lui a ricevere il prestigioso Annie Taylor Award, il riconoscimento che Oriana Fallaci si aggiudicò nel 2005 e consegnato a persone che hanno dimostrato un “coraggio eccezionale”. I guai di Fakhravar iniziarono con le prime marce dei pasdaran contro la bandiera americana. Quando gli ordinarono di gridare slogan contro il “Grande Satana”, Fakhravar rispose che la bandiera a stelle strisce era la stessa “che hanno affisso sulla Luna e che rappresenta il progresso della razza umana”. L’opposizione al regime e un pamphlet di accuse contro il regime, “Inja Chah Nist”, gli sono costati una prigionia di otto anni nella famigerata prigione di Evin, quella dove la dissidente Zahra Kazemi è stata torturata a morte nel 2003. Due delle sue sorelle hanno subito la stessa sorte. Durante un incontro pubblico con l’ayatollah Akbar Rafsanjani, Fakhravar chiese: “Anziché ripeterci di cosa abbiamo bisogno, perché non ci chiede cosa vogliamo?”. Prima di essere un dissidente favorevole all’intervento americano in Iran, nella forma delle sanzioni ma senza escludere l’opzione militare, Fakhravar era imbevuto di fascinazione marxista. Per le sue eresie, ha subìto otto lunghissimi mesi di isolamento e di “tortura bianca”, una forma di privazione del sonno sperimentata nelle segrete degli ayatollah e in Corea del nord. Arrivò negli Stati Uniti nella primavera del 2006. La Pbs dedicò un lungo documentario a questo “eroe” della battaglia per la democrazia in Iran. Amnesty International descrive così la sua condizione: “La sua cella non aveva finestre, era completamente bianca, come i suoi abiti. Per cibo riceveva riso bianco. Le guardie non emettevano rumore. Gli era proibito parlare con chiunque”. Sei mesi fa Fakhravar ha preso parte al forum dei dissidenti organizzato a Praga dal presidente americano Bush, dall’ex presidente ceco Vaclav Havel e dal refusnik Nathan Sharanskij. “La rivoluzione è pronta, qualcuno però deve schioccare le dita, aiutare, dare il segnale del cambio di regime”, disse Fakhravar. “La libertà non è gratis”. La stampa liberal ha lanciato una campagna di character assassination, definendolo il “Chalabi iraniano”. La rivista liberal Mother Jonas definisce Fakhravar un “falso messia” alla stregua del politico iracheno che per anni ha sponsorizzato la presa di Baghdad. Nel novembre del 2004 Fakhravar lanciò il suo samizdat dalla prigione di Evin: “Abbiamo assistito alle esecuzioni dei nostri amici, altri sono stati torturati, alcuni sono al confine solitario da anni. Non siamo soli. Molti studenti hanno scelto di rivoltarsi e sacrificarsi perché un giorno l’Iran sia libero”. Due anni dopo, a differenza di altri dissidenti iraniani, Fakhravar non si vergogna di entrare dalla porta principale della Casa Bianca per discutere con Bush di democrazia e diritti umani: “Il popolo iraniano ha paura di dire ciò che prova, ma in privato vede Bush come un liberatore”. Pesano sul suo curriculum le amicizie con Richard Perle, Michael Leeden, Dick Cheney e Bernard Lewis. Dal suo ufficio alla Foundation for the defence of democracies di Washington, Fakhravar ripete che “il mondo deve fare qualcosa prima che Ahmadinejad diventi un altro Hitler”. Quando al presunto uso civile dell’energia atomica da parte di Teheran, Fakhravar chiede: “Se è davvero una questione di orgoglio nazionale, perché per diciotto anni hanno tenuto segreto il programma nucleare?”. Durante l’ultimo Secular Islam Summit, Fakhravar ha definito gli studenti iraniani un’“armata silenziosa. La repressione non ha precedenti. In quale altro paese degli innocenti sono incarcerati per una lettera o per aver rilasciato un’intervista a una radio straniera?”. A chi lo accusa di essere in cerca di celebrità, come è già successo ad altri dissidenti dell’islam, da Ayaan Hirsi Ali alla siriana Wafa Sultan, Fakhravar replica lapidario: “Potete vedere i segni della tortura sul mio volto, i miei polsi e le mie ginocchia. Nella prigione dei pasdaran stavo giorno e notte senza lo spazio per sdraiarmi con in mano il vaso degli escrementi”.
Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante lettere@ilfoglio.it