Niente "nakba" nei testi scolastici israeliani la cronaca di Francesca Paci, che tende a confondere "narrazione" e falsi storici
Testata: La Stampa Data: 07 novembre 2007 Pagina: 20 Autore: Francesca Paci Titolo: «Una scuola, due storie ma Israele non ci sta»
In Israele la Commissione educazione della Knesset ha bocciato del ministro dell’istruzione Yuli Tamir che avrebbe introdotto alle elementari un sussidiario in cui si parla della Nakba, «la catastrofe», come i palestinesi definiscono la loro guerra d’indipendenza israeliana del 1948. Francesca Paci ne scrive sulla STAMPA del 7 novembre 2007, concedendo troppo all'idea che tra israeliani e palestinesi si oppongano due "narrazioni" della storia, di segno opposto ma equivalenti nell'essere espressione di mitologie nazionali, a proposito delle quali sarebbe sbagliato chiedersi se corrispondono o meno alla verità. Ma il racconto arabo della nascita di Israele come atto di aggressione, o affermazioni come quella dell'antropologo Sharif Kananeh, riportata senza commenti dalla Paci, secondo la quale i primi sionisti "volevano la terra a costo di eliminare fisicamente i palestinesi" non sono opinabili "narrazioni", ma falsi. La verità è che la guerra fu scatenata dagli arabi per cacciare gli ebrei, che avevano acquisito le terre sulle quali sarebbe sorto Israele pacificamente. Israele difese la propria esistenza.
Ecco il testo:
Può darsi che alla fine la geografia la spunti. Che ad Annapolis o da qualche altra parte israeliani e palestinesi arrivino a disegnare i confini di due Stati per due popoli. Ma la storia no. Anche quando avranno smesso di combattersi, israeliani e palestinesi resteranno divisi dall’epos. Perché nella ricerca della causa per l’effetto, la reponsabilità iniziale, la priorità nella sofferenza, le due parti non sono d’accordo neppure al loro interno. E gli israeliani, eredi della grande tradizione dialettica ebraica, lo sono ancora meno. Lunedì la Commissione educazione della Knesset, il parlamento israeliano, ha bocciato con sei voti a uno l’iniziativa «revisionista» del ministro dell’istruzione Yuli Tamir che avrebbe introdotto alle elementari un sussidiario in cui si parla della Nakba, «la catastrofe», come i palestinesi definiscono la loro versione della guerra d’indipendenza israeliana del 1948. Il libro, in realtà, è già in uso: dallo scorso settembre circa 200 mila allievi di terza elementare delle scuole arabe-israeliane di Jaffa, Haifa, Nazareth, affiancano ai manuali e di storia e geografia un volume intitolato «Living together in Israel» che spiega come, sessant’anni fa, alcuni arabi furono cacciati dalle loro case e divennero rifugiati. Il parere negativo della Commissione rafforza ora gli ultraortodossi, che da settimane danno battaglia al ministro Tamir rifiutando anche solo il sospetto che la nascita dello Stato d’Israele abbia avuto effetti disastrosi sui palestinesi. Lei, laburista, laureata a Oxford, fondatrice di Peace Now, incassa tutto, compresa la richiesta delle sue dimissioni avanzata dal deputato dell’estrema destra Zevulun Orlev. Ma, replica, la didattica non si tocca: «Esistono almeno due narrative, negarlo non fa che aumentare la tensione». Che è successo quando gli ebrei cacciati dall’Europa sono giunti in Terra Santa cercando una patria, la patria? Il racconto dei primi sionisti descrive una regione desertica, «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Poi vennero gli studiosi, etnografi, antropologi. Nel celebre saggio «Vittime» lo storico israeliano Benny Morris ricostruisce la mappa dei villaggi arabi spazzati via dalla costruzione del nuovo Stato, salvo ammettere, anni dopo, che si trattava di sopravvivenza. Storia contro etica? Una domanda esistenziale sintetizzata da Smilansky Yizhar, uno dei padri della letteratura israeliana scomparso un anno fa, nel romanzo «La rabbia del vento», in cui narra l’angoscia dei soldati con la stella di David nell’espellere gli abitanti del villaggio immaginario di Khirbet Khiza. La decisione del ministro Yuli Tamir, che un anno fa aveva scandalizzato le destre ordinando sussidiari aggiornati sulla Green Line, i confini israeliani prima del 1967, tocca un nervo scoperto. Un tabù, dice il professor Yossi Yona, docente di filosofia dell’educazione all’università Ben Gurion: «Israele è un Paese ancora insicuro, troppo per mettere in discussione i miti fondanti. La memoria, per molti, è un gioco a somma zero, si vince o si perde. E la sconfitta sarebbe totale». «Living together in Israel», lo suggerisce il titolo, voleva aprire porte. Non come «Married to another man», l’ultimo pamphlet della studiosa Ghada Karmi sui due rabbini che arrivano in Palestina nel 1897 e la scoprono «una sposa bella, ma maritata già con un altro uomo». Secondo «Living together in Israele» furono gli arabi a rifiutare «l’offerta di spartizione delle Nazioni Unite e a impugnare le armi». Ma poi «gli ebrei prevalsero e ci fu una tregua. Gli arabi chiamarono quella disfatta Nakba, per gli ebrei è la guerra d’indipendenza». Troppo? Troppo poco? Sharif Kananeh, arabo-israeliano, docente d’antropologia all’università di Birzeit e autore di 16 monografie su altrettanti villaggi arabi scomparsi nel ’48, ne fa un problema di storiografia: «Non credo che gli israeliani siano obbligati a inserire la Nakba nei testi scolastici. Da noi ci sono ancora mappe che non li riconoscono come Stato... Ma dovrebbero abbandonare la propaganda degli ebrei che ignorano il radicamento alla terra dei predecessori». I primi sionisti sapevano quel che facevano, sostiene Kananeh: «Non che volessero eliminare fisicamente i palestinesi ma volevano la terra a costo di eliminare fisicamente i palestinesi». Una storia, una delle due, una delle tante che dividono anche Israele.
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