Da AGENZIA RADICALE del 5 novembre 2007:
Sempre più frequentemente si parla di dialogo, dialogo con l'Islam (soprattutto), dialogo con le altre religioni, dialogo con le altre culture. Il dialogo, come la pace, la memoria e altre parole ancora, è diventato così inflazionato che molti lo usano senza capirne il vero significato, svuotandolo di quella valenza che originariamente aveva.
Ma se da un lato c'è chi ne abusa, dall'altro ci sono tanti altri che continuano a chiedersi cosa significa e con chi si può e si deve metterlo in pratica.
E' giusto quindi porsi domande sulla scelta più o meno opportuna del nostro interlocutore, sugli obiettivi da raggiungere, su quali temi è bene dialogare e quali invece è meglio tralasciare. Si possono porre alcune condizioni? Oppure si deve dialogare con tutti senza nessuna regola? Viene il dubbio che in quest'ultima ipotesi si rischi o un dialogo tra sordi, quindi del tutto inutile e perditempo, oppure che una delle due parti, di solito la più debole da un punto di vista culturale o identitario, ceda totalmente all'altra.
In particolare, per quanto riguarda l'Islam, che è forse la questione che ultimamente ci si pone di più, sembrano esserci due schieramenti: il primo è per il dialogo a tutti i costi, con chiunque, con i peggiori dittatori, con i terroristi che mandano i propri sudditi a farsi esplodere o a combattere guerre sanguinose, che perseguitano i dissidenti in cerca di libertà, oppure, nei casi più moderati, è per il dialogo con chi applica la Taqyia, quel doppio linguaggio che non giustifica apertamente, ma neanche condanna, che capisce, che distingue tra terrorismi a seconda della nazionalità delle vittime, tra violenze misogine, persecuzioni disumane e persecuzioni moderate e che declina le responsabilità su altre società e gruppi esterni.
Il secondo desidererebbe un dialogo soltanto con propri simili, con gente che ha abbandonato, talvolta violentemente, la propria religione o cultura d'origine, che non fa altro che parlarne male e che vorrebbe assimilarsi totalmente nella società in cui è stata accolta.
Questi due schieramenti che sembrano sempre più netti e sempre più lontani, esaltano le qualità degli interlocutori, dimenticando di guardare anche all'aspetto negativo.
Come quasi sempre avviene, però, c'è una via di mezzo, un dialogo con chi è rimasto musulmano e attaccato alle proprie origini da un lato, ma che, dall'altro, condanna, "senza se e senza ma" tutti i tipi di terrorismo, riconoscendo che esso è, insieme alla misoginia e al rifiuto della libertà di espressione e di religione, uno dei problemi principali del mondo islamico.
Persone di questo tipo certamente non mancano: senza citare i più noti e lodevoli esempi nostrani, come Magdi Allam e Souad Sbai, basterà ricordare che sempre più spesso sui giornali arabi (soprattutto quelli editi in Europa) i vignettisti accusano il fondamentalismo per la violenza e i leader politici e religiosi di essere i mandanti delle bombe umane.
La scorsa settimana sul quotidiano londinese Al Sharq Al Awsat, il direttore del centro per gli studi politico strategici della casa editrice Al Ahram ha criticato il silenzio nel mondo arabo sull'oppressione delle minoranze religiose, come i Bahai e i cristiani in Egitto, i Curdi e gli Yazidis in Iraq, definendo fascista il regime di Saddam e affermando che la libertà personale comincia quando essa è garantita al più debole tra i deboli.
Alla fine dello scorso settembre Khaled Al-Hroub, un ricercatore palestinese, ha affermato sul quotidiano Al Ayaam che coloro che costruiscono grandi moschee in Europa dovrebbero vergognarsi per non usare quel denaro nell'aiutare i poveri musulmani nel mondo, che invece sono aiutati da "organizzazioni straniere".
Ormai famosa, poi, è Nonie Darwish, fondatrice di Arabs for Israel (Arabi per Israele) che tiene a precisare di non essere né antiaraba né anti-islamica e che, pur rimanendo all'interno dell'Islam, riconosce che i problemi non sono né la terra ("se si guarda una cartina geografica si vede che gli arabi non hanno bisogno di terra, ma la capacità di tolleranza"), né tanto meno la presenza di Israele in Medio Oriente.
Sempre per rimanere nel tema, se, come afferma (giustamente) Magdi Allam, una delle condizioni principali per il dialogo è quella di riconoscere il diritto alla vita di tutti, Israele compresa, allora si potrebbe prendere in considerazione chi nel mondo musulmano riconosce anche quale è stata la sofferenza più grande del popolo ebraico: il genocidio nazista.
Recentemente il rappresentante palestinese in Polonia ha chiesto all'ambasciatore israeliano di accompagnarlo ad Auschwitz. Khaled Ghazal, questo il nome del diplomatico, ha trascorso nel campo di sterminio due ore e mezzo, visitando le camere a gas, i forni crematori e le baracche. "Desideravo esprimere la mia profonda solidarietà alle vittime del nazifascismo e dei crimini contro il Popolo ebraico. Penso che la lezione fornita da questo sterminio debba spronarci nel tentativo di creare la pace nel Medio Oriente".
Nel 2005 un arabo israeliano di Nazareth, Khalid Mahamid ha aperto un museo della Shoah, finanziandolo personalmente e guadagnandosi così l'antipatia (con conseguente allontanamento) di tutta la sua famiglia. Unica in tutto il mondo musulmano, l'iniziativa intende "accrescere la consapevolezza delle sofferenze degli ebrei" presso i palestinesi. Qualcuno teme che questo suo gesto passa essere strumentalizzato ed arrivare ad affermare (erroneamente) che non devono essere gli arabi a pagare le conseguenze del genocidio europeo. Ma in un'epoca in cui il negazionismo, sia del nostro continente, sia soprattutto nel mondo islamico (si ricordi ad esempio il convegno tenutosi a Teheran lo scorso anno) sembra sia sempre più frequente, invadendo anche istituzioni pubbliche, l'iniziativa di Kahlid Mahamid è già un gran passo avanti.
Si può e si deve diffidare, al contrario, di chi critica in maniera strumentale, come quei palestinesi secondo cui il terrorismo nuoce alla causa del loro popolo e non dicono, invece, che è un atto immorale, oppure come un ex portavoce di Hamas che ha definito un errore la presa di potere violenta da parte della sua organizzazione lo scorso giugno e che essa dovrebbe accettare i colloqui per uno Stato a Gaza e in Giudea e Samaria (Cisgiordania), ma soltanto come primo passo per ottenere tutta la terra che l'Onu ha assegnato ad Israele.
Bisognerebbe anche diffidare di chi ha recentemente beneficiato dell'aiuto occidentale, come il governo afghano che ha sostituito un suo diplomatico in Germania poiché egli aveva invitato un collega israeliano ad una serata di celebrazione dell'indipendenza, nella sua ambasciata.
Insomma, per combattere il fondamentalismo è bene dialogare con i dissidenti, soprattutto quelli che criticano l'Islam dall'interno
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