PANORAMA del 6 novembre 2007 pubblica un reportage da Jenin di Stella Pende, intitolato "La legione dei bambini kamikaze".
L'articolo documenta l'incessante propaganda, rivolta soprattutto all'infanzia, che crea i terroristi suicidi.
Non spiega, però, che anche le tragiche esperienze vissute dagli adolescenti intervistati sono il prodotto della campagne del terrorismo palestinese contro Israele, e delle inevitabili risposte.
Non manca purtroppo la disinformazione sull'esercito israeliano, che nell'articolo sembra essere abitualmente impegnato a demolire case seppelendovi vivi gli abitanti.
Leggiamo inoltre che "nessuno dice che oggi gran parte dei militanti di Hamas lotta contro la teologia del sacrificio". Dove, e quando ? A noi risulta che la televisione di Hamas continui a istigare i bambini al "martirio", anche utlizzando popolari personaggi dei cartoni animati (Topolino e l'ape Maia).
Ecco il testo:
La stanza è buia. Nella Palestina della lotta il ragazzino si porta addosso il suo moncherino come se fosse una medaglia. Anzi, forse quella mano è esplosa da sola, per far schizzar fuori la rabbia che gli cova dentro. Fabbricava una «kawalaa», la bomba facile, dice, quando c’è stata l’esplosione. «Ho visto partire via il mio braccio destro e ho pensato: adesso volo in Paradiso anche io. Invece sono finito in galera».
In principio Rabee, a Jenin lo chiamano così, ha paura. Poi una domanda lo incendia: anche tu vorresti essere un martire? «Trova un solo bambino qui che non sogni di diventare shaid». I suoi occhi s’infuriano di disperazione: «Mi hanno ammazzato la sorella, poi tre cugini, e ho due fratelli seppelliti in galera». Il ritratto ghignante dello sceicco Yassin, che fece grande Hamas, gli dondola sulla testa.
Chi è il bambino della foto che porti nella catena al collo? «Si chiamava Yousef. Era il mio migliore amico». Agita quell’avanzo di braccio come un bastone della vendetta: «Aveva 11 anni. Gli hanno sparato una pallottola nei polmoni». Davanti a quel ricordo ritorna il ragazzino che è: «Era nato come me durante l’intifada» racconta e ricorda che a 5 anni i tank israeliani sfioravano le sue finestre come dinosauri pronti a sputare fuoco. «Arrivavano di notte e di mattina c’erano solo cadaveri che affioravano dalle macerie. Un giorno ho visto una madre impazzita darsi fuoco».
Torna alla sua galera: «In prigione il braccio mi faceva morire dal dolore. Chiedevo aiuto ai secondini e quelli, per beffarmi, mi davano l’Akamal, l’aspirina israeliana. Capisci perché preferiamo morire?». No, non capisco: la scommessa è la vita, Rabee. Chi usa un bambino per ammazzare innocenti muove una catena di morte infinita.
Strane ombre vanno e vengono zitte dalla stanza, ma lui è un fiume in piena. «Io non ho un braccio: sarei sospetto. Ma molti dei miei amici hanno aiutato la nostra terra col sacrificio della vita». Piange quel ragazzino che non può più neanche morire: «L’ultimo è arrivato a casa mia il giorno prima. Mi ha abbracciato forte: tienimi il cellulare fino a domani, ha detto. Io ho capito e ho pregato: “Allah proteggi la sua missione”».
Jenin: terra di bambini kamikaze. I muri delle case marce in questa città sono affrescati dalle facce di giovanissimi eroi della morte che sventolano il kalashnikov come altri ragazzini farebbero con l’aquilone. È il martirio dei più piccoli. Il sacrificio di esistenze non ancora fiorite. Bambini come bombe umane che esplodono le loro vite contro obiettivi militari e civili del nemico. È l’ultima frontiera, la nuova strategia della guerra dell’Islam fondamentalista. Dalla Palestina all’Afghanistan, dall’Algeria all’Iraq.
«Ogni terra dà i frutti che semina» dice Riad Malki, general manager dell’istituto di ricerca palestinese Panorama. «La Palestina, come l’Iraq e l’Afghanistan, sono paesi devastati dall’occupazione dove i bambini respirano solo morte. Finché la morte non diventa purtroppo loro alleata».
A Jenin come a Gaza uno slogan sinistro impera: «La vita è in cielo e la morte sta in terra». Sulla via che porta al Freedom Theatre, teatro della libertà (un’isola felice dove i bambini trovano la ragione di esistere oltre alla guerra), i ragazzini scendono in bici scale e scalette. Molti hanno fucili e pistole di plastica. Il gioco che si mischia con la vita. Del resto a Jenin, come a Nablus, un reportage di France 3 riferisce che i bambini di queste due città hanno comprato negli ultimi anni almeno 45 mila album con 15 milioni di figurine di kamikaze. «Il martirio qui ha vinto anche il calcio» dice Ahamed il pasticciere. Sul muro del bar, insieme ai piccoli eroi shaid, un’apparizione inquietante: il ritratto di Saddam Hussein impettito. Ahamed spiega: «Oggi nei territori il rais iracheno e martire vince in popolarità anche su Yasser Arafat».
Il Teatro della libertà è un piccolo scantinato buio, ma a Jenin è l’unica luce. Gli israeliani lo hanno chiuso, oggi vive di nuovo. Nelle foto delle bacheche ecco tutti gli attori degli anni passati travestiti da fauni. «Non ce n’è più uno solo vivo» racconta Zakaria, ex combattente con la faccia nera per sempre dopo un’esplosione. Siamo dentro il cuore di un film di Quentin Tarantino. Arriva la truppa di piccoli attori: Ahamad, Mohamad, Sami e Rami. Sembrano la copia maltrattata dei nostri figli. T-shirt da baseball consumate e gel nei ricci, la recitazione è l’unico modo di scappare dalla realtà.
Pochi minuti e la verità se li riprende: «Non potrò mai dimenticare mio fratello affogato nel sangue» dice Mohamad, fosco, subito doppiato da Sami: «Hanno lasciato morire la mia sorellina colpita a un rene...». Si paralizza: non si perdona di essere vivo. Racconta che lui, come gli altri, è un soldato della jihad islamica, molto dedita al reclutamento di minorenni. Ahamad, 15 anni, è il più duro e il più sofferente. Non ha più nessuno al mondo. Nemmeno la nonna. «Quando uscivo mi baciava in fronte: per lei era sempre un addio. È rimasta sotto le macerie. Non l’ho salvata, ma la vendicherò».
La vendetta è la loro aria. La violenza il pane. Si illuminano solo quando raccontano di bombe. «Costruirle è facile come respirare» ricorda Ahamad. «Basta sigillare un tubo di ferro a una sola estremità. Ci metti dentro vetri e chiodi mischiati all’esplosivo e poi la miccia». Gli altri sanno molto bene di cosa parla, ma tacciono. Non capite che così condannate a morte il vostro popolo? Ahamad risponde: «La condanna sono gli invasori. Finché ci sono loro i nomi dei giovani shaid diventeranno una lista infinita».
Eccola: Youssef Zaqout, 14 anni, prima di esplodere scrive: «Mamma cara, prega per il mio successo». Amer al-Far, 16 anni, salta in aria nel mercato di Tel Aviv e uccide tre civili israeliani. Hussam Mahmud Bilal Abdul, 16 anni, alza le mani al posto di blocco e getta la cintura. È detenuto con i 145 minorenni arrestati per crimini contro la sicurezza. E quanti ancora?
In Kalami va alla guerra, libro del giornalista Giuseppe Carrisi, si racconta che i bambini vengono addestrati a Gaza dalle elementari. Con poesie («Io porterò la mia anima nella mano e la getterò nella distruzione»), slogan («Mamma, prepara il sudario») e perfino esercizi di grammatica («Forma una frase con le seguenti parole: martire, difendere, morire, madrepatria»). Per non parlare di tv, dvd e giornali. Il quotidiano Al-hayat Al-Jadida ha pubblicato un articolo dal titolo «La morte di un bambino: dono per la festa della mamma».
In uno dei manuali di reclutamento un uomo di Hamas, anonimo, racconta di immense liste d’attesa al martirio baby. «Il nostro problema è mandare via i ragazzi convincendoli ad aspettare la chiamata di Allah». Nessuno dice che oggi gran parte dei militanti di Hamas lotta contro la teologia del sacrificio. Ma è troppo tardi: questi bambini hanno respirato solo dolore. E il dolore e la morte sono oggi la loro identità.
Dalla Palestina il set del martirio si sposta all’Afghanistan. Nella provincia di Ghazni, Juma Gal è solo un bambino di 6 anni quando i talebani gli mettono addosso una cintura di esplosivo: «Va’, Juma, corri e quando sei davanti agli americani premi forte il bottone. Sarà una esplosione di fiori». Ma in Afghanistan non puoi essere piccolo nemmeno a 6 anni. Così Juma è arrivato al posto di blocco con le mani alzate. «Aiuto, credo di essere pericoloso» ha urlato il bambino pallido al capitano Cornier. I soldati atterriti lo hanno liberato della bomba e Juma si è ripreso la sua vita. Ma uno solo è troppo poco in un paese dove il martirio cresce in maniera orrenda.
I numeri raccolti a Kabul dall’ultima inchiesta della missione di assistenza Onu urlano: «Se dal 2001, anno dell’assassinio di Ahamad Massoud, al 2005 gli attentati sono stati 5, nel 2006 i kamikaze sono arrivati a 123» racconta preoccupato Tom Koenig, capo della missione. «Ma l’orrore arriva in quest’ultimo anno: solo da gennaio ad agosto 103 attacchi suicidi. A esplodere sono soprattutto ragazzini poveri, analfabeti e facilmente ricattabili».
Questi poveretti sono allevati nelle scuole coraniche nel Pakistan tribale. Storditi e terrorizzati dalle minacce d’inferno dei talebani. «Non volevo morire e non volevo uccidere: allora mi hanno spaccato tutti i denti e mi hanno lasciato in una gabbia urlando: morirà tua madre» racconta in un’intervista del rapporto un bambino di 10 anni scampato alla sua condanna. I talebani negano. Peccato che troppi video (tra questi la cerimonia di affiliamento di uno shaid di 15 anni) rispondano per loro.
Ma in Afghanistan chi tocca i tuoi figli vedrà la sua testa rotolare davanti alla porta di casa. Così nelle zone tribali di Khost, Paktika e Paktia i canuti capivillaggio, privati dei primogeniti, hanno dedicato una notte di luna piena al piano di vendetta. Il giorno dopo il vecchio leader di Khost ha sfidato il potente comandante talebano Jaluddin Haqqani che gli aveva preso un figlio per «la missione»: «Dammelo indietro vivo o sarai morto con il tuo».
I bambini sono prede facili. Un bambino ti crede, un bambino non è sospetto. E se lo è, diventa un bersaglio snaturato. Sparare a un uomo è atroce, ma piuttosto che uccidere un bambino meglio morire.
L’avranno pensato i 30 soldati ammazzati il 14 settembre nella caserma di Delly, in Algeria. «Ci siamo visti sparare addosso un’auto guidata da un ragazzino e siamo rimasti paralizzati» racconta un superstite. Il kamikaze si chiamava Nabil Belkacemi, aveva 14 anni e nel suo collegio di Bachjerra lo chiamavano Il principe della rete. Internet era il suo regno finché, in un giorno di fitta navigazione, non ha scoperto in rete scritti, manuali e promesse di paradisi lasciati come calamite dai signori dell’Al Qaeda islamica.
Oggi internet è una delle loro trappole predilette per i ragazzi. Tanto che a giugno, dopo la proclamazione dei risultati elettorali, la polizia di Thenia convoca 13 collegiali, tra i 12 e i 16 anni, che nascondono negli slip cd e file stampati con inni di gloria al martirio. Certo l’Algeria non è un paese occupato. Ma le troppe concessioni del presidente Abdelaziz Bouteflika agli islamisti, compresa l’amnistia a quelli che lasciano le armi, hanno portato via troppi soldati ai combattenti delle montagne.
Dunque, come tuona nell’ultimo video il supremo capo del gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, Abdelmalek Droukdel, «La resurrezione della jihad algerina è affidata alla carne e all’anima dei nostri giovanissimi». Profezia avverata. Più di 100 ragazzini sotto i 16 anni hanno indossato la bandana verde di Al Qaeda nell’ultimo anno.
Se l’Afghanistan, la Palestina e l’Algeria devono fermare subito la mattanza dei loro bambini, l’Iraq dei cultori di stragi deve solo vergognarsi. A Baghdad i bambini muoiono già abbastanza. Eppure, i rivoltosi iracheni pescano i futuri kamikaze tra i piccoli più indifesi: gli orfani. Proprio quei figli della miseria che nessuno reclamerà e che, magari, sognano di ritrovare padre e madre in paradiso. Come Muhamad Saleh, 11 anni, che si è fatto esplodere davanti a una caserma ammazzando cinque soldati. Come Mustafà Ibrhaim, 10 anni, che ha detto: «Non ho nessuno che piangerà per me e il mio istruttore dice che, dopo, potrò riabbracciare mia madre». Ma il suo istruttore gli ha detto anche che deve aspettare: non ce la fa a portare la cintura né le armi. Mustafà è stato fortunato. Ha incontrato i volontari dell’Iraq Aid association che consolano bambini disperati come lui. Ha trovato anche una famiglia. E ora non vuole più morire.
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