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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Daniel Mendelsohn Gli scomparsi 05/11/2007

 

 

 

Gli scomparsi                                 Daniel Mendelsohn

 

 

Traduzione                                     Giuseppe Costigliola

 

 

Neri Pozza                                      Euro 20

 

 

 

A volte una storia ci attrae perché nasce da una nota dissonante e oscura, che all’improvviso s’insinua nella partitura di un’occasione qualunque. Accade nell’incipit di Gli scomparsi, straordinario libro di memorie, viaggi, affetti familiari scritto dallo statunitense Daniel Mendelsohn: “Tempo fa, avevo tra i sei e gli otto anni, appena entravo in una stanza capitava che qualcuno cominciasse a piangere”. Sono gli anni Sessanta e il piccolo Daniel, cresciuto in una laica famiglia ebrea di Long Island, a Natale fa visita ai parenti che vivono a Miami Beach. Anziani signori in camicie hawaiane che giocano a poker, fumano e devono whisky e signore dalle unghie rosso fuoco e “dal vago sentore di cipria e olio di cucina”, gente allegra e chiassosa che però non riesce a trattenere il pianto davanti a un bambino.

 

 

Gli occhi azzurri di Daniel ricordano troppo quelli di Schmiel, il “fratello senza tomba” del suo nonno materno, l’unico della famiglia Jager a non essere emigrato in America agli inizi del Novecento. Ucciso dai nazisti con la moglie Ester e le quattro bellissime figlie, mormorano in Yiddish i vecchi di Miami, punito dal destino per essere rimasto a Bolechow, la cittadina della Galizia (Polonia al tempo, oggi Ucraina) in cui gli Jager vivevano fin dal 1600. In famiglia non si parla di Schmiel; ma alla morte del nonno un Daniel ormai adulto, critico letterario e studioso di greco e latino, eredita le lettere che nel 1939 il prozio ha inviato ai familiari perché lo aiutassero a scappare in America. E’ lui stesso, da New York, a spiegarci come questo evento sia la genesi de Gli scomparsi, che, dopo il successo negli Stati Uniti, ha venduto in Francia cinquantamila copie in poche settimane: “Avere in mano quelle lettere, quasi delle suppliche, ha risvegliato la mia ossessione per la storia familiare. Non saprò mai cosa risposero mio nonno e gli altri fratelli, ma volevo capire cosa fosse accaduto a Schmiel”.

 

 

Mendelsohn cerca materiale su Internet, consulta gli archivi sull’Olocausto e con i fratelli organizza un primo viaggio a Bolechow (in ucraino Bolekhiv) sulle tracce dei “suoi” Jager. A Bolechow, però, nessuno pare ricordarsi di loro: dei seimila ebrei che ci vivevano nel 1942, solo 48 sopravvissero allo sterminio nazista e si sparsero nel mondo.

 

 

Viaggiando dall’Australia a Israele a Stoccolma lo scrittore ha ritrovato gli ultimi dodici ebrei di Bolechow e da ognuno si è fatto raccontare di Schmiel il macellaio, della pingue Ester e delle loro quattro ragazze. Nel libro i loro ricordi si mescolano al resoconto di quello strano pellegrinaggio. “Per favore non scriva che è un’autobiografia” puntualizza “è invece un libro dedicato a chi è stato inghiottito dalla Storia. Ma anche una riflessione sull’impossibilità di conoscere chi ci è vicino”.

 

 

Man mano che si avanza nella lettura de Gli scomparsi, in effetti, al giallo che circonda la famiglia Jager (“Come morirono? Chi li tradì? Una domestica, un dipendente ucraino, un vicino di casa invidioso?”) si aggiunge il mistero sottile “dei rapporti d’amore e d’odio, solidarietà e conflitto che si agitano in ogni famiglia”.

 

 

I parenti americani fecero tutto quel che potevano per salvarli oppure no? Nel tentativo dir rispondere a questo interrogativo doloroso, Mendelsohn inframmezza la narrazione con le sue riflessioni sull’Antico Testamento. “Cercavo qualcosa che mi aiutasse a riflettere. Così io, che da piccolo amavo gli antichi Egizi e l’Odissea, mi sono riavvicinato alla Bibbia”. L’odio tra Caino e Abele, l’immagine del Diluvio come prima estinzione si rivelano un’insolita “mappa di viaggio” nei sentimenti contraddittori che lo legano ai suoi familiari, ma anche nel male insensato della Shoah.

 

 

Lontano da ogni luogo comune nel raccontare il dolore, Mendelsohn si situa da un’altra prospettiva rispetto ad Auschwitz. “Non perché non sia importante” specifica “ma perché la vastità, lo scopo, la misura incarnata da un luogo tanto simbolico era quasi un ostacolo rispetto al minuscolo pezzo di Storia che volevo ricostruire”.

 

 

“Percorrendo l’Europa orientale, non solo nella piccola Bolekhiv ma a Praga, a Vienna, a Vilnius io e i miei fratelli abbiamo provato una sensazione bizzarra” aggiunge. “Ci sono ancora i cimiteri, le case, i ghetti, le sinagoghe, ma niente ebrei. Per noi, cresciuti in America, questo vuoto ha qualcosa di incomprensibile prima ancora che di sinistro. Come mi disse mio fratello nel cimitero di Bolekhiv, l’Olocausto non è finito. Senza Shoah, noi avremmo delle cugine da visitare una volta l’anno. E l’Europa avrebbe tutti i discendenti di quei sei milioni di ebrei”. Poi fa una pausa e dice in italiano: semplicemente scomparsi.

 

 

 

Lara Crino’

 

 

Il Venerdì di Repubblica

 

 


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