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La Stampa Rassegna Stampa
03.11.2007 Ad Annapolis la pace è possibile
l'analisi di Arrigo Levi

Testata: La Stampa
Data: 03 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Arrigo Levi
Titolo: «Israele, le premesse per la pace»
Da La STAMPA del 3 novembre 2007 un articolo di Arrigo Levi sulle prospettive di pace in Medio Oriente.
Sorprendentemente, in un analisi equlibrata e realistica, Levi inserisce un elogio  della lettera che un
 "gruppo di autorevolissimi «consiglieri politici» americani, che include sia democratici sia repubblicani (fra gli altri, Zbigniew Brzezinski, Brent Scowcroft, Ted Sorensen, Paul Volcker) ha indirizzato di recente al presidente Bush".
 Zbigniew Brzezinski, tra i firmatari della lettera ha pubblicamente elogiato il libro antisemita di Mearsheimer e Walt contro la "lobby israeliana".
Inoltre alcuni consigli della lettera appaiono nella migliore delle ipotesi enunciazioni di buoni propositi, irrealizzabili nelle condizioni attuali
(" l'avvio di negoziati di pace fra Israele e Siria",  "un dialogo genuino con Hamas": quando la Siria continua a sostenere il terrorismo e Hamas a praticarlo, rifiutando nel contempo di riconoscere Israele ?).
Altre raccomandazioni appaiono così vaghe da risultare o del tutto ininfluenti, o deliberatamente ambigue: "«meccanismi di sicurezza che rispondano alle preoccupazioni israeliane pur rispettando la sovranità palestinese",  "una soluzione dello «status» dei profughi palestinesi, con la concessione di adeguati compensi".

Ecco il testo:

Non c'è più spazio per fare la pace un passo alla volta. Sia Israele sia i palestinesi sanno, più o meno al 99%, quello che sarà l'accordo di pace. Se sappiamo dove vogliamo arrivare ci arriveremo». Sono parole che abbiamo ascoltato, al convegno napoletano di Sant'Egidio, dal ministro dell'Interno d'Israele, Meir Shitrit, già Likud, oggi tra i più convinti sostenitori del negoziato di pace che potrebbe e dovrebbe ricevere dalla conferenza prevista per questo mese ad Annapolis, con la partecipazione anche dei principali Stati arabi, un decisivo impulso. Gli ha risposto Jamal Zakout, consigliere di Abu Mazen: «La leadership palestinese rappresenta oggi il gruppo di leader più pragmatici di tutta la storia del movimento nazionale palestinese».

Introducendo il dibattito, il ministro D'Alema, impegnato negli ultimi mesi in un succedersi di colloqui con le due parti, e con i Paesi arabi della regione, aveva detto: «Per la prima volta c'è una convergenza inedita di interessi. Il rischio che la causa palestinese si saldi con la sfida fondamentalista è sentito come un pericolo sia dai palestinesi, sia dagli israeliani. Una solida pace è sentita anche dagli Stati arabi come il necessario contenimento contro una minaccia comune». Il riferimento all'Iran mi è parso evidente.
Non tutti condividono il messaggio sostanzialmente fiducioso che abbiamo raccolto nell'incontro napoletano. Condivide la fiducia, o la speranza, Martin Indyk, già membro autorevole del team di negoziatori di Clinton, partendo dalla constatazione che sia una maggioranza di israeliani sia una maggioranza di palestinesi (anche nella Striscia di Gaza, oggi sotto il controllo degli estremisti di Hamas) sono favorevoli alla pace fra due Stati. C'è «un nuovo senso di urgenza», c'è «una paura esistenziale», ha scritto giorni addietro Indyk, che possono trasformare in forza e determinazione la debolezza politica sia di Olmert sia di Abu Mazen. Ma lo stesso Indyk sa che i nemici della pace, a cominciare da Hamas, potrebbero «usare la violenza per distruggere l'emergente armonia» fra le due leadership.
E poi c'è un forte squilibrio fra ciò che Israele può concedere e quello che i palestinesi possono dare in cambio. Israele può offrire molto: il ritiro dalla maggior parte dei territori occupati nella West Bank, il riconoscimento che Gerusalemme dovrà essere divisa, e che i luoghi santi dovranno godere di uno statuto speciale, e poi ancora qualche concessione sui profughi palestinesi. I palestinesi non hanno nulla in mano da dare in cambio, apparentemente. Possono però concedere qualcosa di straordinario valore, in cambio della nascita del loro Stato, e cioè il riconoscimento dello Stato d'Israele, premessa dell'accettazione dello Stato ebraico nel Medio Oriente arabo e islamico, che vuol poi dire garanzia vera e definitiva della sopravvivenza d'Israele. Dico sopravvivenza, e non sicurezza, che è molto di meno. In ogni guerra, a partire da quella del '48, non era in gioco, per lo Stato ebraico, la sicurezza, ma la sopravvivenza. E da Rabin in poi i capi israeliani hanno sempre saputo che la sola definitiva garanzia di sopravvivenza è la pace con i palestinesi; anzi, con uno Stato palestinese, la cui nascita finisce così con l’apparire come interesse fondamentale d'Israele.
Che sia giunto ora il momento per fare la pace, è però ancora dubbio. Perché per Israele (torno ai due concetti sopra citati) è sì in gioco la sopravvivenza, ma anche, in immediato, la sicurezza; e per raggiungere un accordo di pace, per convincere i palestinesi, Israele deve compiere dei passi capaci di mettere intanto a rischio la sua sicurezza. La cessione di Gaza ha portato al trionfo, nella Striscia, di Hamas, e al continuo lancio di missili contro le zone di frontiera del Sud d'Israele. Questo non incoraggia certo Israele (a cominciare dai suoi capi militari) a rinunciare a quelle misure (il moltiplicarsi dei «check points» nella West Bank, la costruzione del muro di protezione) che hanno accresciuto la sicurezza del cuore stesso d'Israele.
Un gruppo di autorevolissimi «consiglieri politici» americani, che include sia democratici sia repubblicani (fra gli altri, Zbigniew Brzezinski, Brent Scowcroft, Ted Sorensen, Paul Volcker) ha indirizzato di recente al presidente Bush una lettera che indica con molto rigore quelli che dovrebbero essere i principi essenziali di un accordo di pace, da proclamarsi alla Conferenza di Annapolis come obiettivi di un nuovo intenso negoziato: la creazione di due Stati; Gerusalemme come sede delle due capitali, con accordi speciali per la Città Vecchia; una soluzione dello «status» dei profughi palestinesi, con la concessione di adeguati compensi; il congelamento dell'espansione delle colonie israeliane; l'avvio di negoziati di pace fra Israele e Siria; infine, l'adozione di «meccanismi di sicurezza che rispondano alle preoccupazioni israeliane pur rispettando la sovranità palestinese». Quest'ultimo obiettivo a me sembra il più difficile da tradurre in realtà. La lettera giudica anche «che un dialogo genuino con Hamas sia preferibile al suo isolamento».
Questo elenco dice quanto ardui da superare siano gli ostacoli per la conferenza di Annapolis e per il nuovo negoziato, ripreso dopo sette anni di interruzione. Torno al tema delle garanzie di sicurezza per Israele, nella difficile, e non breve, fase di transizione. È immaginabile che Israele possa affidarsi, a tal fine, almeno in parte, alla presenza di forze internazionali (Nato, Unione Europea), presumibilmente dislocate su suolo palestinese? In passato, e fino all'accordo Unifil sul Libano, Israele non ha mai accettato di fidarsi altro che di se stesso. Non so davvero se sia oggi disposto a cambiare idea.
Quello che tutti sanno è che se il nuovo negoziato, e la Conferenza di Annapolis, fallissero, si aprirebbe una fase estremamente critica, non solo nei rapporti israelo-palestinesi, ma per l'intera regione mediorientale. Si alzerebbe il sipario su un futuro di nuove guerre.

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