L'inflazione può costringere i governi alla democratizzazione ? un'analisi su Cina, Russia e Iran
Testata: Il Foglio Data: 02 novembre 2007 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Iran , Cina e Russia alle prese con il volto»
Dal FOGLIO del 2 novembre 2007, un articolo sul rischio inflazionistico in Cina, Russia e Iran e sui suoi possibili effetti politici:
Roma. Da Pechino a Mosca, da Teheran, al Cairo fino a Caracas, c’è una parola che fa tremare le gambe soltanto a sussurrarla: inflazione. Non c’è detonatore delle rivolte sociali più violento dell’aumento dei prezzi, basti pensare alle origini della Rivoluzione francese. I governi lo sanno e così c’è chi bandisce la parola dal vocabolario, come fa la Cina, o chi promette in massimo tre anni il ritorno a livelli di inflazione accettabili, come fa il ministro dell’Economia russo, in piena campagna elettorale. “Il liberismo monetario sta al mercato come la libertà di parola sta alla democrazia – spiega Anthony Kim, che ogni anno redige l’Index of economic freedom dell’Heritage Foundation – Senza queste libertà non è possibile mantenere stabile una società: l’inflazione e il controllo dei prezzi distorcono il mercato, confiscando benessere, allocando in modo sbagliato le risorse, alzando i costi di produzione”. La conseguenza può essere la rivolta. “L’Unione Sovietica collassò quando il governo violò il suo contratto sociale con i cittadini – insiste Harvey Feldman, sinologo dell’Heritage Foundation – Il patto recita: voi fate quello che dico io e io vi miglioro la vita. Se i prezzi aumentano e non si trovano più i beni primari, il governo perde in legittimità e si scatena instabilità sociale”. Oggi in Cina le pompe di benzina sono vuote, al punto che le merci ci mettono sette giorni invece di tre per andare da Canton a Pechino. A Shanghai il razionamento è reale, alcuni distributori riempiono soltanto un quarto del serbatoio. Così il governo ha deciso di aumentare il prezzo della benzina del 10 per cento per la prima volta dal maggio 2006, nonostante la promessa di congelare i prezzi controllati dallo stato prima della fine dell’anno: l’inflazione nell’ultimo trimestre è arrivata al 6,5 per cento, pure se è stato vietato ai funzionari cinesi di nominare la questione. In Russia, l’82 per cento dei cittadini ha la percezione che i prezzi al supermercato siano raddoppiati nell’ultimo anno: da settembre latte, latticini e olio di girasole sono cresciuti del 20 per cento. Non c’è sondaggio che non rilevi che la più grande paura dei russi, eletti ed elettori, è l’aumento dei prezzi: ora l’inflazione è all’11,5 per cento, contro l’8 per cento che era stato previsto. Fino al 31 gennaio il governo ha bloccato i prezzi di alcuni generi alimentari, sta pensando di introdurre dazi sull’esportazione del grano, il cui prezzo è esploso a causa della produzione di biocarburanti, e fa promesse da campagna elettorale giurando che in tre anni il tasso d’inflazione tornerà al 5-6 per cento. “Ma quando non si mantengono le promesse – ricorda Feldman – le strategie politiche che non s’ispirano a regole di mercato finiscono male”. In Iran il governatore della Banca centrale ha chiesto al presidente Mahmoud Ahmadinejad di diminuire l’offerta di moneta per non fare esplodere la bomba inflazionistica (il tasso è ufficialmente al 16 per cento, ma alcuni analisti dicono che sia già al 22): la benzina è stata razionata e le riserve stanno finendo, con un di più di sanzioni il regime sarebbe vicino al collasso. In Egitto gli scioperi paralizzano il paese. Tutti fermi, dagli operai agli impiegati pubblici: nell’ultimo anno, l’inflazione è cresciuta del dodici per cento, il prezzo delle verdure del 38.
“Soltanto una speranza” Il dollaro basso e il prezzo del petrolio oltre i 90 dollari il barile hanno scatenato fenomeni inflattivi – nei mercati delle materie prime e dei servizi – che stanno destabilizzando i paesi basati su centralizzazione e autoritarismo. Tornano il controllo dei prezzi, il razionamento, le sovvenzioni, ma i governanti sanno che queste sono misure di breve periodo. I cinesi, per esempio, “non hanno ancora dimenticato la carestia che negli anni Quaranta colpì il paese a causa dell’inflazione e certo non vogliono rivivere quell’esperienza”, spiega Feldman. Così molti sperano – e secondo l’esperto americano si tratta comunque ancora “soltanto di una speranza” – che la crescita dei prezzi convinca il governo di Pechino a fare quello che la comunità internazionale, con una straordinaria intesa tra Stati Uniti ed Europa, chiede da un po’: rivalutare lo yuan, che due giorni fa ha raggiunto valori record sul dollaro. Di più: l’inflazione potrebbe generare un circolo virtuoso nei regimi. All’inizio, “la destabilizzazione causa un’erosione delle libertà economiche”, conclude Kim, ma da questo si può innescare un processo di accesso al mercato, costringendo i governi a incamminarsi sulla strada del mercato libero e dell’indipendenza delle istituzioni monetarie. In altre parole, della democrazia.
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