Antropologi "embedded" in Iraq la strategia del generale David Petraeus
Testata: Il Foglio Data: 31 ottobre 2007 Pagina: 0 Autore: Giulio Meotti Titolo: «“Conosci il tuo nemico”. Gli antropologi del Pentagono al fronte»
Dal FOGLIO del 31 ottobre 2007, un articolo di Giulio Meotti sugli antopologi che prestano servizio con le forze armate americane a Baghad.
Roma. La polemica risale al botta e risposta tra il sociologo Roger Caillois e il padrino dell’antropologia, Claude Lévi- Strauss. Lo spunto fu l’uscita, più di cinquant’anni fa, di “Razza e storia”, il saggio di Lévi-Strauss commissionato dall’Unesco in cui sosteneva l’impossibilità di una gerarchia tra culture. Caillois rispose attaccando i “disastrosi profeti” giunti a una “fanatica rivendicazione della barbarie”, quei catastrofisti che “si accaniscono a rinnegare i diversi ideali della loro cultura e sono dipendenti da una civiltà che detestavano”. Oggi la polemica si presenta in questi termini: un antropologo può prestare servizio nell’esercito americano in Iraq e in Afghanistan? Marcus Griffin è uno dei consiglieri culturali che lavorano per i marine a Baghdad. Del soldato ha solo il giubbetto antiproiettili, per il resto ha l’aria dell’accademico, insegna Antropologia all’Università di Newport. Si è offerto volontario nel nuovo programma del Pentagono, “Human Terrain System”, unità di accademici che lavorano al fronte come consiglieri culturali. Un programma diretto da un colonnello in congedo, Steve Fondacaro. Al Wall Street Journal Griffin spiega questa “conoscenza al servizio della libertà umana”. L’antropologia “embedded” è frutto del cambio di strategia del generale David Petraeus, il “guerriero intellettuale” con un dottorato a Princeton, l’appassionato arabista che ha sostenuto in questi anni lo studio della cultura indigena irachena. Come ha scritto lo storico sciita Fouad Ajami, “il viaggio nel cuore del medio oriente si è trasformato in un’avventura attraverso le malignità arabe, dispotismo, settarismo e antimodernismo”. Da qui la necessità di una consulenza culturale. “Eravamo abituati a pensare solo al terreno militare” ha detto David Petraeus. “E’ il momento di concentrarci su quello culturale”. E’ scoppiata la “guerra degli antropologi”, dopo quella contro gli arabisti che nel 2003 accettarono di lavorare per la Casa Bianca, come Bernard Lewis, lo sciita Ajami e l’iracheno Kanan Makiya, che l’intellettuale palestinese Edward Said bollò come “collaborazionista”. La stessa accusa di collaborazionismo viene rivolta dal New York Times agli accademici che hanno accettato di prendere parte allo Human Terrain System, iniziato alla fine del 2006. A raccontarlo per primo è stato due anni fa Max Boot sul Los Angeles Times. Esponente di punta del programma è l’antropologa di Yale Montgomery McFate, che dopo aver pubblicato “Anthropology and Counterinsurgency” aiutò il generale Petraeus nella stesura del suo celebre manuale di counterinsurgency. C’è chi parla di “antropologia mercenaria”, questi accademici sarebbero epigoni degli studiosi di scienze sociali all’epoca del colonialismo. Altri hanno definito McFate una “moderna Gertrude Bell”, la grande esploratrice, archeologa e linguista inglese che da consigliere dell’alto commissario britannico a Baghdad si inventò di sana pianta l’Iraq moderno. La chiamavano “Regina senza corona di Baghdad”. E’ partito anche il boicottaggio accademico contro chi prende parte al programma. Il comando centrale americano, il Centcom, porterà intanto da 6 a 28 il numero di queste unità culturali. Come scrive la professoressa McFate, “combattere l’insorgenza in Iraq richiede una conoscenza culturale e sociale dell’avversario”. Il colonnello Fondacaro afferma che “in Iraq gli antropologi ci danno la visione migliore per vedere i problemi attraverso gli occhi della popolazione”. Secondo McFate l’antropologia deve scendere dalla sua “torre d’avorio”, tornare a sporcarsi le mani nei conflitti, come in Vietnam e America latina. “In nome di una ermeneutica critica, sostenuta da un neomarxismo autoriflessivo, l’antropologia ha avviato un brutale processo di flagellazione”. Per McFate il meglio di sé l’antropologia lo ha dato nella Seconda guerra mondiale, quando gli accademici lavorarono per l’Office of Strategic Services. Un antropologo di Harvard, Carleton Coon, formò la resistenza marocchina ai nazisti. L’etnologo inglese Tom Harrrison si fece paracadutare nel Borneo per addestrare la guerriglia antigiapponese. L’antropologa Caro Du Bois formò la resistenza contro Tokyo nel sudest asiatico. L’inglese Gregory Bateson trascorse molti anni nella Nuova Guinea e prese parte ad operazioni di salvataggio di membri dell’Oss. Nella guerra del Vietnam c’era l’antropologo Gerald Hickey, scrisse intense pagine di frustrazione perchè gli americani non accolsero i suoi suggerimenti su come trattare la popolazione vietnamita. Al suo ritorno negli Stati Uniti, non riuscì a trovare un incarico accademico, tale era il boicottaggio delle università. Nel maggio del 2004, quando ci fu lo scandalo Abu Ghraib, il New Yorker scrisse che i militari avevano tratto ispirazione dal testo dell’antropologo Raphael Patai “The arab mind”, che sviscera l’umiliazione sessuale nella mentalità araba. Il Pentagono replica alle accuse contro i suoi “antropologi mercenari” dicendo che è grazie a loro se gli Stati Uniti sono riusciti a pacificare la regione irachena di al Anbar. Ogni unità è composta da un antropologo, da uno scienziato sociale e da un linguista. “Se capisci come frustrare e soddisfare la popolazione locale per ottenerne il sostegno, avrai meno bisogno di uccidere e ti farai meno nemici” dice McFate, una ex hippie della Bay Area che al Pentagono ha spiegato che “l’antropologia è più utile dell’artiglieria”, almeno in certi casi. “Non stiamo militarizzando l’antropologia, semmai antropologizziamo l’esercito”. Ai militari in Iraq viene detto di prendere il caffè offerto con la destra e mai con la sinistra, come vuole la tradizione araba. Petraeus usa baciare sulle guance gli interlocutori alla maniera araba, dice che sarà sempre un “mosulawi”, uno di Mosul. McFate fu la prima a sostenere che l’insorgenza tribale in Iraq era conseguenza dello scioglimento dell’esercito baathista, origine della vendetta araba. Il motto di questo programma, “Conosci il tuo nemico”, è anche il titolo di una splendida inchiesta del New Yorker. Fra i “ragazzi di Petraeus”, come li chiama il Washington Post, ci sono l’economista Michael Meese, lo studioso e militare australiano David Kilcullen, lo storico Peter Mansoor, lo studioso di Thomas Jefferson Douglas Ollivant, l’arabo Ahmed Hashim e l’esperto del Council on Foreign Relations Stephen Biddle. L’antropologo Felix Moos lavora a Fort Leavenworth. “Gli accademici mi giudicano colluso con i militari, dicono che ho introdotto delle spie nelle accademie. Ma dove sono i Ruth Benedict dell’Iraq e dell’Afghanistan?”. Benedict era una grande antropologa. Un altro studioso “embedded”, Brian Selmeski, rifiuta l’accusa di colonialismo: “Non voglio che uccidano sempre di più, al contrario aiuto perché si superino i conflitti”. Selmeski ha trascorso due anni nella giungla con i ribelli ecuadoregni. Il primo ad attirare l’attenzione del Pentagono fu Kilcullen, nel 2004 venne segnalato a Paul Wolfowitz, un altro instancabile reclutatore di pensatori. Nel 1993 Kilcullen, oggi definito “architetto della strategia tribale in Iraq”, fu mandato dal governo australiano a West Java, a vivere come un indonesiano vero. Stando ai suoi “Ventotto articoli”, il documento usato per addestrare l’esercito iracheno, la regola numero uno è: “Conosci il nemico e l’area dove vive”. Strade, cultura, costumi, storia, rapporti familiari. A Kilcullen si deve l’idea di aumentare la cooperazione con i clan sunniti. “Uccidere è facile, trovare il nemico è impossibile”. Per questo serve l’alleanza con figure islamiche di peso. Come quegli sceicchi sunniti assassinati da al Qaida per essersi rivoltati contro l’organizzazione di Osama bin Laden. Si va da Fadil Ali Al Janabi, membro del Consiglio del Risveglio dell’area di Jurf al Sakhar, il cui corpo decapitato è stato trovato a Iskandriyah, a Muawiya Naji Jbara, capo sunnita del Consiglio tribale per il risveglio di Salahuddin, ucciso da una bomba. E ovviamente quell’Abu Risha che dieci giorni dopo aver stretto la mano a Bush fu assassinato all’uscita del compound. Kilcullen ha proposto alla Casa Bianca di creare “network di fiducia” nei paesi islamici, moschee amiche, associazioni professionali, sindacati non islamizzati. L’esempio è offerto dalla Guerra fredda, da Solidarnosc alle altre organizzazioni operaie anticomuniste. “Ciò che serve è creare un’alternativa al mondo del jihad”. Kilcullen ha capito per primo che al Qaida aveva fallito nel costruire il suo mondo a Baqubah e Ramadi: “Alcuni leader tribali mi hanno detto che è iniziato tutto sulle donne. Una delle tecniche di al Qaida, che ho visto applicata in Somalia, Pakistan, Afghanistan e Indonesia, è sposare le figlie dei leader di famiglie tribali. Si crea un legame con la comunità, al Qaida diventa parte della zona. Ma al Qaida in Iraq ha ucciso gli sceicchi che si sono rifiutati di dare in matrimonio le sue figlie. Questo crea un obbligo di vendetta, tha’r. I leader tribali vedono i benefici che altre tribù hanno raggiunto nel rivoltarsi contro i terroristi e vogliono i loro stessi benefici. Così si rivoltano ai terroristi nelle loro aree. Dobbiamo ricordare che la rivolta appartiene agli iracheni, non a noi. E’ stata una loro idea, loro hanno iniziato”. Celebre la battuta dell’australiano: “Se fossi nato musulmano, oggi sarei un jihadista”. A Washington c’è chi lo accusa di essere soft sull’islam: “Questi elegantoni che se ne stanno dietro una scrivania, prima uccidano una dozzina di jihadisti e poi vengano da me a lamentarsi”. Kilcullen è uno che parla con i nemici di al Qaida, che ha cercato di arruolare un giovane in ogni famiglia sunnita, che uccide i sunniti che raccolgono rifiuti o guidano camion del ministero dell’Agricoltura. “Noi parliamo di democrazia e diritti umani, gli iracheni di giustizia e onore”. Mentre il feretro di Abu Risha si dirigeva al cimitero di famiglia, i partecipanti al corteo funebre gridavano slogan come “Al Qaida è nemica di Allah”. Aver letto in tempo i semi di quest’intifada sunnita è merito degli antropologi “collaborazionisti”. Come lo è la notizia che Majed Alsudani, direttore del dipartimento educativo di Najaf, ha annunciato che una scuola della città “sole dello sciismo” sarà intitolata ad Abu Risha. O che le nuove unità della polizia irachena hanno marciato sotto le immagini iconiche del religioso martirizzato. “Lasciate che gli uomini di al Qaida mostrino i loro volti” ha detto il fratello di Risha durante la parata militare a fianco dei politici sciiti. “Fateli venire da noi, li combatteremo. Siamo in guerra con al Qaida, non faremo le valigie, i comandanti non si ritirano dal campo di battaglia”. “E’ doloroso vedere quanto poco sappiamo dell’islam” diceva il capitano Luke Calhoun durante la rivolta di Fallujah nel 2004. Poi è arrivato Kilcullen a spiegare loro il significato di due concetti chiave nel mondo musulmano: “Deera”, fedeltà alla tribù, e “Sulh”, movimento di riconciliazione. Il fronte si è subito rovesciato.
Di seguito, un articolo sulla strategia del generale Petraeus in Iraq:
L’America sta cercando di capire come deve investire il suo budget futuro alla Difesa. Ci sono due possibilità. C’è chi scommette che le prossime guerre saranno ancora simili a quelle in Iraq e in Afghanistan. Potrebbero essere campagne di controinsurrezione alla David H. Petraeus, contro un nemico disperso, che sta molto attento a tenersi sotto la superficie limacciosa dell’acqua, mimetizzato tra i civili, fino al momento in cui colpisce e fa strage. Una guerra da combattere pazientemente da uomini appiedati tra le viuzze strette delle cittadelle sunnite di al Anbar, tra gli slum filippini o nelle aree più isolate del Sudan. Oppure potrebbero essere guerre alla Wesley Clark. Come la campagna del 1999 per costringere la Jugoslavia di Slobodan Milosevic ad abbandonare il Kosovo. Tutto il lavoro fu lasciato ai bombardieri Nato. Nessun fante mise mai piede a Belgrado e le uniche perdite registrate furono i due piloti di un elicottero Apache precipitato per un’avaria meccanica. L’avversario in questo secondo caso non sarebbe più un bersaglio tenero come le forze armate di Milosevic. Si tratterebbe piuttosto di un duello di traiettorie elettroniche con Cina o Russia, su griglie che soltanto i satelliti sanno riconoscere stese sopra lo Stretto di Barents o nel mezzo dell’oceano Pacifico. E’ chiaro che le decisione del Pentagono, se vorrà prepararsi per l’uno o per l’altro tipo di conflitto, condizionerà quell’enorme flusso di fondi e di investimenti su cui ha da sempre l’ultima parola. Per quest’anno fiscale il Congresso americano ha già approvato lo stanziamento di 150 miliardi dollari soltanto per le operazioni oltremare, a cui vanno aggiunti altri 46 miliardi chiesti il 22 ottobre dalla Casa Bianca. Già da tre anni, la corsa dei soldi ha bruscamente cambiato direzione. Gli sforzi sono tutti concentrati su una controrivoluzione tecnologica terra-terra, che punta a servire i combattenti sul campo (a cominciare dalle uniformi, molto diverse da quelle vecchie – a macchia di leopardo – con cui sono arrivati). Ci sono buoni risultati. In questi mesi in Iraq stanno arrivando i colossali Mrap, mezzi blindati al cui confronto i vecchi Humvee sembrano utilitarie chic. Hanno una speciale carena a V che devia all’esterno l’onda d’urto degli ordigni disseminati sulle strade dalla guerriglia irachena. Ne sbarcheranno oltre ventimila nei prossimi due anni. I soldati ora hanno sistemi acustici sofisticati che indicano in un lampo il punto di partenza di uno sparo (e quindi il tetto su cui è appostato il cecchino, pur nascosto tra altri dieci edifici). O speciali irradiatori di microonde capaci di disperdere una folla inferocita senza fare alcun danno, se non una sensazione di dolore di pochi secondi. Eppure la controrivoluzione militare in atto non è cosa tecnologica. Il generale Petraeus sta combattendo in Iraq secondo nuovi schemi, testati per la prima volta quando era il semplice comandante di una divisione di parà di stanza a Mosul nel 2003. L’Economist ha sintetizzato la strategia così: “Dopo le bombe intelligenti, i soldati intelligenti”. E in effetti è lo stesso Petraeus a dire che la counterinsurgency “è la guerra nella sua versione laureata”. In uno dei suoi sermoni più famosi, un capo qaidista in Iraq accusava i nemici di essere troppo impacciati dal loro stesso gigantismo: “Stanno chiusi nelle loro basi, a mangiare gelato e a giocare con la playstation, mentre noi ci muoviamo rapidi e attacchiamo con il desiderio di morire”. I soldati americani stanno rovesciando quest’ordine di cose. Piccoli avamposti, lunghe pattuglie a piedi, interazione continua con i locali. Quando serve, soldi. “Money is ammunition”, come dice Petraeus, che quando era a Mosul aveva organizzato persino un format tv simile a un reality show sui canali locali per stemperare le tensioni etniche. Uno dei pochi occidentali ad aver prevalso su una guerriglia locale, l’emissario britannico in Malesia Sir Gerald Templer, sosteneva che “la parte in cui si spara è la parte minore”. Il nuovo corso inaugurato in Iraq sembra anche innovativo su un fronte particolarmente delicato, quello delle relazioni difficili con la madrepatria. Quando un redattore ventenne del giornalino di Princeton ha chiesto di intervistare il comandante Petraeus per un servizio sugli ex allievi, si è sentito rispondere: “Bene, l’intervista sarà senz’altro più ricca se la facciamo qui in Iraq. E’ l’occasione per un tour del paese”. E quando il padre di un marine morto in combattimento ha chiesto di essere arruolato nella stessa unità, per incontrare i compagni di suo figlio e scrivere un libro in sua memoria, il comando di Baghdad ha concesso il permesso. Non è importante solo la pace con le tribù di Anbar, ma anche con la coscienza pubblica. Per ironia della sorte, ora l’approccio dei soldati intelligenti è diventato il modello prediletto dal partito repubblicano. E l’altro approccio, quello delle macchine e dei missili guidati da migliaia di chilometri di distanza, quello degli appetiti del complesso militare industriale, che permette di non perdere uomini (ma non mette al riparo da errori) è quello “alla Clark”: il generale ex candidato dei democratici.
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