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La Stampa Rassegna Stampa
29.10.2007 Un'opportunità per la pace tra israeliani e palestinesi
l'analisi di Henry Kissinger

Testata: La Stampa
Data: 29 ottobre 2007
Pagina: 1
Autore: Henry Kissinger
Titolo: «Israele, la sfida della pace»
Da La STAMPA del 29 ottobre 2007:

Il segretario di Stato Condoleezza Rice ha espresso chiaramente come l’Amministrazione Usa si aspetta che si svolga il processo di pace in Palestina ora in corso. Il presidente palestinese Mahmud Abbas e il primo ministro israeliano Ehud Olmert dovranno tenere incontri preparatori per definire gli elementi più importanti per un accordo. Il progetto provvisorio sarà poi da sottoporsi a una conferenza internazionale che si terrà a Annapolis, in Maryland, alla fine di novembre, anche se chi parteciperà è ancora da decidere.
Il segretario di Stato ha mostrato determinazione ed entusiasmo per arrivare a questo punto. La sua prossima sfida sarà di guidare il processo in modo da evitare quello che successe a Camp David nel 2000, quando i leader israeliani e palestinesi cercarono un accordo soltanto per vederlo andare in pezzi nella successiva crisi, che dura tuttora.
All’inizio della maggior parte dei negoziati, ciascuna parte ha più chiara la propria posizione che il risultato finale. Quello che è unico nella conferenza di Annapolis è che il risultato finale è già stato accettato in anticipo. Quello che rimane incerto è la capacità di renderlo effettivo. Per la gran parte della sua storia Israele ha rifiutato l’idea di uno Stato palestinese, insistendo che una Gerusalemme indivisa fosse la sua capitale e impedendo il ritorno dei rifugiati palestinesi.

La controparte araba ha reagito ai rifiuti israeliani rifiutandosi di riconoscere Israele, con qualsiasi confine; in seguito insistendo sui confini del 1967 che non erano mai stati riconosciuti quando esistevano; poi domandando il ritorno dei rifugiati senza alcun limite, il che avrebbe la conseguenza di soverchiare la popolazione ebraica nello Stato ebraico.
Ora il processo è guidato dalla convinzione che le due parti possono essere condotte ad accettare entro la fine di novembre - o hanno già tacitamente accettato - il cosiddetto Piano Taba del 2000, concepito da negoziatori tecnici alla vigilia dell’incontro fallito a Camp David. Il piano prevede per Israele sostanzialmente il ritiro nei confini del 1967(con piccole correzioni), lasciandogli solo gli insediamenti attorno a Gerusalemme ma restringendo il corridoio tra le due principali città israeliane, Haifa e Tel Aviv, a circa 30 chilometri. Lo Stato palestinese sarebbe compensato con altrettanto territorio israeliano, probabilmente nello spopolato Negev. Israele sembra preparato ad accettare un ritorno senza limitazioni dei rifugiati nello Stato palestinese ma rifiuta in modo inamovibile qualsiasi ritorno nel proprio territorio. Israele sarebbe anche pronto a cedere i sobborghi arabi di Gerusalemme come capitale del futuro Stato palestinese.
Se le cose stanno davvero così, siamo davanti a un rivoluzionario cambio di percezione su entrambi i lati. L’Intifada e la diffusione globale del radicalismo hanno spinto l’opinione pubblica israeliana e la sua leadership a percepire il loro Stato come minacciato da nuovi e crescenti pericoli: primo, una nuova situazione nella quale le principali minacce non vengono da guerre convenzionali ma da gruppi terroristici con geografia indefinita e che operano da piccole basi mobili; secondo, la sfida demografica poiché l’alternativa a due Stati potrebbe diventare un unico Stato nel quale la popolazione ebraica sarebbe in minoranza; terzo, l’esiziale minaccia di proliferazione nucleare, specialmente dall’Iran; e, infine, una situazione internazionale nella quale Israele si sente sempre più isolato a causa della crescente percezione nell’Europa occidentale e in piccoli ma influenti circoli Usa che l’intransigenza israeliana è la causa dell’ostilità araba verso l’Occidente.
Nel frattempo, i timori crescenti nei confronti dell'Iran hanno provocato un riordino delle priorità nel mondo arabo. Per gli Stati moderati sunniti il pericolo di un Iran dominante è la principale preoccupazione. Il convergere di timori americani, arabi, israeliani e europei incoraggia la speranza che un accordo tra Israele e i suoi vicini arabi possa attenuare, o addirittura eliminare, le comuni paure. Riuscirà la diplomazia a esaudire queste aspettative?
Come regola generale, in diplomazia, ci si aspetta che le parti in un accordo assumano la principale responsabilità nell'adempiere ai propri impegni. In questo caso, gli interlocutori di entrambe le parti sono in una posizione estremamente debole. La coalizione al governo in Israele è collassata, e il livello di approvazione è ai minimi storici. Lo sgombero degli insediamenti nella West Bank, che è destinato a coinvolgere decine di migliaia di coloni, sarà un'esperienza drammatica per Israele. Ancor più perché le concessioni israeliane - ritiro e rimozione degli insediamenti - sono concrete, immediate e permanenti, mentre le concessioni arabe - riconoscimento di Israele e normalizzazione delle relazioni - sono astratte e revocabili.
L'accelerazione del processo dovrebbe anche sacrificare vantaggi a corto termine che portano a crisi di lungo termine. Non sarebbe meglio per Israele cedere territori da aree con una popolazione musulmana predominante piuttosto che da zone poco abitate? Ciò aumenterebbe l'equilibrio demografico in tutti e due gli Stati e ridurrebbe il rischio di una nuova Intifada fra qualche tempo.
L'opinione pubblica araba è tutt'altro che uniforme. Ci sono almeno tre punti di vista identificabili: un piccolo, impegnato ma non molto appariscente gruppo che crede sinceramente nella coesistenza con Israele; un gruppo molto più grande che cerca di distruggere Israele con un conflitto permanente; un nuovo ramo che vuole negoziare con Israele ma giustifica il negoziato all'interno come un mezzo per distruggere lo Stato ebraico più avanti. Sono pronti gli Stati arabi moderati a rafforzare e allargare il gruppo disposto sinceramente alla coesistenza?
Molti Stati arabi moderati esitano moltissimo a venire ad Annapolis. Se saranno presenti, si produrrà un portentoso cambiamento nei rapporti di forza all'interno del mondo arabo. I moderati saranno accusati di aver tradito la causa araba più che elogiati per i risultati ottenuti. Le dichiarazioni della suprema guida dell'Iran che attaccano il processo di pace palestinese e avvertono gli Stati arabi di non partecipare alle trattative sono probabilmente l'inizio di una campagna sistematica.
Il processo di pace si fonderà poi inevitabilmente con il più vasto conflitto in Medio Oriente. La conferenza di Annapolis non può essere la fine del processo; piuttosto deve preparare il terreno per una nuova, potenzialmente proficua fase che continuerà con le amministrazioni successive. Ma non dovrebbe essere guidata dal calendario politico americano. Se chiederemo agli amici sia arabi sia israeliani dell'America di farsi carico di responsabilità maggiori di quelle che possono sostenere, c'è il rischio di un'esplosione ancora più catastrofica. Una soluzione preparatoria che laceri il corpo politico in parti contrapposte impedirebbe ulteriori progressi. Spezzare la dorsale psicologica dell'alleato israeliano avrebbe come unica conseguenza quella di imbaldanzire i radicali e destabilizzare l'intera regione.
Il segretario di Stato ha certo ragione nell'insistere che i colloqui Olmert-Abbas evitino gli aggettivi di rito degli sforzi precedenti, che ancora aspettano una definizione dopo decenni: la pace «giusta» e «duratura» all'interno di confini «sicuri» e «riconosciuti» della Risoluzione 242 dell'Onu e gli appelli a una soluzione «giusta e realistica» per il problema dei rifugiati della roadmap. La guida dell'America sui parametri realistici da adottare con Israele e con gli Stati arabi moderati è pre-condizione essenziale per un successo a Annapolis. In sua assenza, seguiranno un’impasse e l'isolamento dell'America. La forza degli schieramenti moderati dipende dalla permanenza dell'America nella regione e non soltanto riguardo la Palestina. Tanto in Palestina quanto in Iraq l'influenza dell'America non potrà mai essere alimentata da un'immagine di ritirata. Tutti i popoli della regione, amici e nemici, giudicheranno la somma totale degli obiettivi dell'America e la sua fermezza nel perseguirli.

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