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La Stampa Rassegna Stampa
27.10.2007 Il regista che resuscita la Shoah
Finalmente in italiano il capolavoro di Claude Lanzmann

Testata: La Stampa
Data: 27 ottobre 2007
Pagina: 7
Autore: Gianno Amelio
Titolo: «IL REGISTA CHE RESUSCITA LA SHOAH»

Finalmente in italiano il film capolavoro di Claude Lanzmann, da sempre citato, ora disponibile in versione integrale nell'edizione Einaudi. Ne parliamo nella Rassegna e non nella rubrica dei libri per la sua eccezionalità. Riprendiamo da TUTTOLIBRI,27/10/2007 a pag.VII, il supplemento culturale del sabato sulla STAMPA, la recensione di Gianni Amelio:

Claude Lanzmann Un’opera che
filma solo il presente: i luoghi, i volti
e i ricordi di vittime e carnefici

IL REGISTA CHE  RESUSCITA LA SHOAH

Non è un documentario, non ricorre a materiali d’archivio, fa emergere  il passato attraverso ciò  che non gli somiglia più


In Olanda, circa quindici anni fa, una studiosa di cinema scelse un modo bizzarro per cominciare un'intervista. Aveva un giornale aperto su delle foto di un film italiano molto discusso e me le mostrava senza guardarle: «Le piace questo film?». «No. Ma che c'entra questa domanda?» le chiesi. «Se avesse risposto di sì me ne sarei andata...». Non aggiunse altro. Dopo che ci lasciammo cercai di saperne di più. Mi dissero che era di religione ebraica, con una storia grave alle spalle, e un presente non proprio sereno. Ecco perché mi aveva mostrato il giornale e le foto: il film italiano in questione era ambientato in un campo di sterminio nazista e affrontava la tragedia in un modo che la signora riteneva ingiurioso. E lei ne era stata ferita.
Allora per me c'erano al cinema due opere fondamentali sull'esperienza dell'Olocausto: Notte e nebbia di Alain Resnais, costruito su immagini dal vero, e La passeggera di Andrzej Munk, che racconta una storia di finzione. L'uno e l'altro, su piani diversi, emozionanti e istruttivi. Perciò non mi ero posto il problema in maniera radicale, se il cinema avesse o no il diritto di riflettere col suo specifico linguaggio sull'orrore più grande del Novecento, di «mettere in scena» ciò che è già difficile avvicinare col pensiero.
Mi dicevo che il cinema può arrivare dove vuole se a muoverlo sono il cuore e l'intelligenza. All'epoca del mio incontro con la signora olandese non avevo ancora visto Shoah di Claude Lanzmann che era passato a tarda sera in televisione qualche anno prima. Lo ricuperai in Francia e capii molte cose, anche l'intransigenza della mia intervistatrice. Come sappiamo, Shoah è costruito su un'idea estrema, è frutto di un lavoro meditato e severo. Solo che la sua efficacia non sta nell'applicazione fredda del proprio rigore ma nel fatto che lo tradisce senza contraddirlo, lo inganna, si direbbe, a fin di bene. Shoah è un'opera che esclude anche il più lontano sospetto di mistificazione, ma non rinuncia a utilizzare con sapienza i mezzi del cinema. Se non vogliamo chiamarlo film di «finzione», dobbiamo dire che Shoah è un film d'invenzione.
Non c'è materiale d'archivio, non si fa ricorso all'agghiacciante repertorio delle immagini riprese nei lager dai liberatori. Lanzmann filma solo il presente, i luoghi ormai irriconoscibili e i volti di chi - vittima o carnefice - è scampato all'orrore, le voci che non sono più le stesse, i ricordi tenaci o rimossi. Mentre gli aguzzini erano ossessionati dal sopprimere ogni traccia, Lanzmann obbedisce al credo di far parlare le cose, anche quelle modificate dal tempo; resuscita il passato attraverso tutto ciò che non gli somiglia più e scopre che il passato non è sepolto ma solo mascherato, che l'idillio di un fiume o di un prato verde possono essere ancora testimoni dell'inferno.
Shoah è tutto ma non un documentario, nel senso comune che si dà a questo termine. Il documentario, secondo l'opinione corrente, sarebbe frutto d'intuito e di abilità nelle riprese: poi si decide tutto in moviola e con un buon commento musicale. Così quando si parla dell'immane lavoro di Lanzmann c'è il rischio di fermarsi in superficie. Si sottolinea lo sforzo durato anni per rintracciare i suoi «protagonisti» dispersi nel mondo, la difficoltà di riportarne alcuni sui luoghi dello sterminio, il coraggio d'interrogare e di farsi dare delle risposte. E non si trascura il tempo passato in sala di montaggio, a scegliere, a scremare, a dare forma coerente alla quantità del materiale girato. Ma questa è solo la parte emersa dell'iceberg.
Sotto c'è la profonda consapevolezza di un regista che muove e guida ogni scelta, anche quella in apparenza casuale. Faccio un esempio. Lo stesso Lanzmann ci spiega come ha realizzato uno dei brani più forti del suo film: il barbiere di Treblinka che racconta di quando tagliava i capelli delle donne prima che entrassero nella camera della morte. Ho voluto - confessa Lanzmann - che l'incontro fosse filmato in un vero negozio di barbiere «… un vero salone, il barbiere e i suoi dipendenti continuavano a lavorare… Credo che non sarebbe riuscito a parlare se non avesse avuto in mano le sue forbici». Il quel momento (dice Lanzmann) il barbiere non risponde a delle semplici domande ma «incarna» se stesso. «E Shoah è innanzitutto un'incarnazione. Se non lo è non ne vale la pena».
L'autore, come spesso succede, ci apre la strada per entrare nella sua opera. Il termine «incarnazione» vale assai meno per gli attori professionisti in un film di Hollywood, che per qualcuno che parla di se stesso davanti a una macchina da presa. Non c'è «naturalezza» che tenga, né l'osceno espediente di nascondere l'obiettivo con la cosiddetta candid camera. Non esiste sullo schermo verità se non è consapevolmente ricreata. Perciò commuovono, nelle primissime immagini di Shoah, le occhiate furtive verso la cinepresa dell'uomo che ritorna sui luoghi dov'era stato bambino ed è così emozionato e confuso da non saper guardare, come forse gli è stato suggerito, soltanto il paesaggio.
L’Einaudi libro+Dvd è la prova di quanto siamo fortunati noi lettori-spettatori di oggi. Ma dobbiamo prima vedere il film e solo in un secondo tempo leggere il libro. Shoah-film ha molto di più del pur bellissimo testo impaginato dall'autore come un poema: ha gli occhi, i fiati, i lapsus degli esseri umani che solo la macchina da presa ha il dono di catturare e di affidarci per sempre.

GIANNI  AMELIO

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