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Ebrei e Russia, quale futuro con i nuovi zar 25/10/2007
Nella storia del popolo ebraico, almeno dalla metà del secolo XIX, la Russia ha avuto una parte di assoluto rilievo. Sotto gli Zar, dai Protocolli dei Savi di Sion ai pogrom, si è formata la prima volontà di un ritorno alla Terra d’Israele, l’inizio di una emigrazione trasformatasi nell’arco di pochi decenni in una vera e propria aliah. Ebrei sionisti che da veri sognatori avevano visto un futuro non lontano, nel quale era possibile la rinascita dello Stato ebraico. Un risultato positivo partito da una condizione di tragedia e oppressione. L’esperienza si è ripetuta un secolo dopo, con la grande immigrazione degli ebrei russi, trasformati da " refuseniks" in cittadini liberi di andarsene. Ne arrivarono in Terra d’Israele più di un milione, da quella terra che, tranne brevi periodi, non ha lasciato ricordi da rimpiangere. Nel ’47, è vero, l’Urss votò all’Onu la partizione della Palestina e l’anno successivo riconobbe il nuovo Stato, ma quel "si" poggiava su un ragionamento politico sbagliato, perché Israele non si rivelò mai quel duplicato di "democrazia socialista" che gli zar rossi si aspettavano da un popolo che si dichiarava socialista, ma di una natura ben diversa da quello comunista. Israele si era costituito come Stato democratico, l’opposto delle repubbliche popolari, che di democratico avevano solo il nome. I rapporti si chiarirono dopo la guerra dei Sei giorni, l’impero sovietico si schierò con i nemici di Israele, quel modo arabo che mai aveva accettato di convivere con lo Stato degli ebrei, si proponeva anzi di distruggerlo, di cancellarlo dalle carte geografiche e di buttarne a mare gli abitanti. Crollato il comunismo, il DNA russo non è cambiato, Putin, invece di essere a capo di una grande nazione che dovrebbe aver capito la tragedia della dittatura, si comporta invece come un nuovo zar, metà Romanoff, metà comunista. Di democratico c’è ben poco. Se ne hanno le prove dalla sua politica nel confronti dell’Iran, oggi la più grande minaccia non solo verso Israele ma anche nei confronti del mondo occidentale. Un politica che non si può nemmeno più chiamare ambigua, a giudicare dalla compagnia che si è scelto. Non che l’Europa dimostri una qualche volontà di fermare Ahmadinejad nella corsa verso l’atomica, anzi. Di fronte alle prese di posizione chiare di Francia e Inghilterra, ci sono quelle di Italia,Germania e Spagna che, dietro al comodo paravento del dialogo salvifico, premono per continuare la politica dell’appeasement, prima gli affari è la parola d’ordine. In questo scenario Putin si muove con abilità che definerei andreottiana, parla con tutti, riceve persino Olmert, ma alla fine non si schiera con le democrazie che hanno capito la lezione di Monaco. Per Putin con il nemico si può, si deve venire a patti, poco importa se in questo modo si pongono le basi per una futura guerra mondiale. Capisco che il ricordo di Hitler possa essersi sbiadito, per uno che è vissuto in un paese che ha generato Stalin. Ricordare il passato, per non ripeterne le tragedie, è una attitudine poco frequentata nei regimi autoritari. Permettere al più folle dittatore che ci sia sul mercato oggi di produrre l’arma atomica, rientra a pieno diritto in quella mentalità così ben rappresentata nel patto von Ribbentrop-Molotov, basta sostituire il tedesco con l’iraniano, il russo c’è sempre, cambia solo il nome. In prima linea c’è Israele, è vero, ma dopo Israele c’è tutto il mondo libero. L’Iran va fermato subito.

dalla rivista Karnenu 25 ottobre 2007

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