Uno storico messo a tacere, gli orrori del multiculturalismo, i musulmani che combattono l'islamofascismo dossier sull'offensiva islamita, e sulla controffensiva dei difensori della libertà
Testata: Il Foglio Data: 25 ottobre 2007 Pagina: 4 Autore: Giulio Meotti - la redazione Titolo: «Il verde Kuntzel: Così mi impedirono di parlare a Leeds - Gli amici di Horowitz - La donna e i fanatici»
Roma. Leeds, Inghilterra, non è un posto come tanti altri. Da lì provenivano gli attentatori del 7 luglio 2005. Nella scuola elementare Hillside lavorava come assistente sociale quel Sidique Khan che avrebbe guidato il commando suicida. A Leeds si è consumato uno dei casi più clamorosi di soppressione della libertà d’espressione. Lo storico tedesco Matthias Küntzel, il massimo esperto in Europa del messianismo giudeicida dell’Iran rivoluzionario, doveva tenere una lezione all’università di Leeds sull’antisemitismo islamico. L’ateneo si arrese alle minacce dei gruppi fondamentalisti e al boicottaggio studentesco, capitolando alla pressione interna dell’ideologicamente corretto, anziché aumentare la protezione attorno al professor Küntzel e consentirgli di parlare. Quanto aveva da dire e soprattutto che cosa successe quel 14 marzo, dopo il quale per prudenza si è circondato da un relativo silenzio, Künztel lo ha consegnato a nuovo libro dal titolo “Jihad and Jew-Hatred” (Telos Pr). Poco dopo l’annuncio repentino della cancellazione dell’evento accademico, Küntzel riceve una telefonata dagli amministratori dell’università, gli comunicano che “le tue parole sono state giudicate controverse” e in molti parlano di un “attacco razzista” da parte dello storico. La comunità islamica chiede al rettore le scuse ufficiali per aver invitato l’intellettuale tedesco legato ai Verdi. L’ufficio stampa dell’università lo informa che “molti potrebbero risentirsi” e che non possono garantirgli una scorta adeguata. “A Leeds è stato posto un pericoloso precedente nella soppressione della discussione critica di uno degli aspetti meno nobili dell’islam”, scrive Küntzel. “Ho tenuto conferenze in molti paesi su questo tema, una poco prima all’università di Yale. Niente di simile era successo prima d’ora, è una censura”. La “colpa” di Küntzel, oltre a sostenere in Germania il boicottaggio dei prodotti iraniani, a partecipare a numerosi sit-in in difesa di Israele e a voler incrinare il vento comunitarista nel paese che ha assegnato una delle sue storiche cattedre di studi religiosi, quella di Oxford, all’islamista svizzero Tariq Ramadan, è di aver messo in forma organica la piaga antisemita del mondo islamico, dalla carta di Hamas ai demoni visionari di Ahmadinejad, passando per la storia del Mufti di Gerusalemme alleato di Hitler e le armate di arabi arruolati nelle SS naziste. “Ho sempre pensato all’Inghilterra come a un paese meraviglioso, l’unico in Europa ad aver resistito all’invasione nazista, e come alla patria della libertà di parola”, spiega Küntzel. “Dopo Leeds devo rivedere quest’idea”. La grande columnist inglese Melanie Phillips, autrice del superbo “Londonistan”, in cui ha indagato il sottobosco islamista nel Regno Unito, scrive che “le università britanniche si sono arrese nella battaglia fra la civiltà e la barbarie”. Il New York Sun parla invece di fine della libertà accademica e spiega che è stata trasformata in un alibi sfruttato dagli antisemiti. Il Sun cita il caso di Tom Paulin, visiting professor alla Columbia University, che ha detto che gli “ebrei di Brooklyn dovrebbero essere accoppati, sono dei nazisti e dei razzisti”. Küntzel nel suo libro racconta l’antisemitismo di Mohammed Atta, capo attentatore dell’11 settembre cresciuto all’ombra della fratellanza musulmana in Egitto. “Il terrorismo islamico si fonda sull’antisemitismo, la peggiore e vergognosa ondata di attacchi al popolo ebraico dall’Olocausto”. Ha denunciato la propaganda martellante nei sermoni televisivi iraniani, lo sbeffeggiamento delle camere a gas nei talk show, la politica del centro religioso di Qom che annuncia progetti di ricerca contro i “difensori dell’Olocausto” e il paradosso secondo cui anche in Europa non è più il negazionista che deve giustificarsi, ma il non-negazionista. Küntzel spiega che Ahmadinejad è il primo leader islamico ad aver celebrato la negazione dell’Olocausto adottando la postura del “combattente della libertà”, svela la retorica di una rivoluzione che usa la parola “sionista” come Hitler usava “ebreo”, decifra il messianesimo sciita e la negazione dello sterminio come atto di “liberazione della verità”. a In Inghilterra la libertà d’espressione era già stata intimidita nel caso di un professore di Oxford, David Coleman, il demografo colpevole di aver spiegato che l’immigrazione di massa non è sinonimo di sviluppo economico. Coleman fu sottoposto a pressione per dimettersi e venne tacciato di “razzismo”. In Olanda c’era stato un altro precedente. Dopo trentasette anni di insegnamento e con una fama consolidata di arabista, Pieter van der Horst doveva congedarsi dal suo ateneo a Utrecht con una lezione sul “Mito del cannibalismo ebraico”, in cui ripercorreva l’accusa del sangue dall’antica Alessandria alle vignette dell’hitleriano Julius Streicher fino all’ondata giudeofobica nell’islam. A Horst successe che il rettore di Utrecht gli intimò di eliminare dal testo ogni riferimento all’islam. La commissione presentò tre ragioni per rimuovere quei passaggi: “Dobbiamo proteggerti da te stesso”. Con quella frase prima a Horst, e poi a Küntzel, è stato impedito di esercitare un diritto fondamentale e l’Olanda ha gettato a mare la sua migliore tradizione di patria della libera parola, quella che ospitò gli scritti di John Locke. Quattro anni fa in Francia, prima che facessimo la conoscenza di Robert Redeker, un insegnante di un liceo parigino, Louis Chagnon, spiegò che Maometto aveva sulla coscienza il maassacro della tribù ebrea dei Qurayza nel 627. La protesta islamista, saldata alla cultura del rimorso repubblicano, fu tale che le gerarchie scolastiche fecero strappare dai quaderni di un’ottantina di alunni i fogli con gli appunti della lezione incriminata di Chagnon. Quell’anno il prode Ivan Rioufol sul Figaro mise in moto una campagna di solidarietà al professore, come quella del Daily Telegraph in difesa di Küntzel, pioniere degli studi sull’antisemitismo. “La fatwa e il filosofo”, il titolo a sei colonne che il quotidiano francese Depeche du midi dedicò al caso Redeker, celava, come in uno scrigno, il triste destino della libertà d’espressione in Europa.
Roma. Negli Stati Uniti la sinistra accademica accusa sistematicamente di islamofobia chiunque colleghi il terrorismo all’islamismo. Contro questo schema fisso è sceso in campo David Horowitz, che ha appena lanciato una campagna di una settimana dedicata alla consapevolezza contro l’islamofascismo, l’ondata dei cattivi maestri e dei loro esecutori che propugnano il jihad e il razzismo islamico. L’ex leader della sinistra americana degli anni Sessanta e collaboratore di Bertrand Russel ha organizzato incontri, tavole rotonde e seminari sulla “consapevolezza anti islamo-fascista” mobilitando cento atenei. La posizione di Horowitz è chiara: definisce “barbariche” le organizzazioni musulmane che hanno fatto dell’antisemitismo una ragione d’esistere. “L’odio verso gli ebrei – secondo lo studioso – non soltanto è in aumento ma è ormai diventato come una religione all’interno di una parte del mondo islamico”. Gli incontri sono in corso e continueranno fino a venerdì, anche se hanno avuto un’accoglienza mista. In alcuni casi, ci sono state proteste e contromanifestazioni. Eppure la settimana dell’anti islamo-fascismo sta vedendo la partecipazione di studiosi sia americani sia musulmani. Tra questi ultimi c’è Nonie Darwish, fondatrice del think tank Arab for Israel. Nel suo intervento alla UC di Berkeley ha detto di “non essere venuta negli Stati Uniti per diventare un’araba wahabita”. Darwish si riferisce ai casi di fondamentalismo islamico che si allargano all’occidente. La studiosa non lancia un allarme sottovoce: “Gli islamisti stanno provando a imporre il wahabismo alla società americana” e cita il caso di una donna della Florida che chiede di avere la foto sulla patente di guida con il velo, o quello delle mamme che chiedono di avere nelle scuole pubbliche bagni appositi e separati per le abluzioni previste dall’islam. “I governi arabo musulmani hanno avuto il permesso di costruire moschee in occidente – dice anche, ricordando il mancato criterio di reciprocità con la maggior parte dei paesi islamici – Ma il contrario, con le chiese, è proibito per legge”. Ogni volta, la solita accusa Consapevole del rischio dell’ascesa dell’islam radicale, Darwish dice “grazie all’America per la libertà” che le ha dato dopo aver vissuto “trent’anni sotto opprimenti dittature”, prima a Gaza e poi in Egitto. La maggior parte della vita della Darwish è trascorsa sotto le norme della sharia e suo padre è stato assassinato dalle operazioni dei Fedayin palestinesi. Nel 1978, l’anno in cui si trasferì negli Stati Uniti , ricorda come nella prima visita in una moschea americana le fu imposto di indossare abiti consoni all’islam. Come era possibile, se era arrivata in America proprio per non sentirsi più dire quelle cose? “La religione, ogni religione, deve adottare un criterio universale su diritti umani, libertà di scegliere il proprio credo, uguali diritti per donne e minoranze. Ma per realizzare questo, che cosa stanno facendo gli arabi americani?”. Per Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania, intervenuto ieri all’Università, “gli americani non hanno capito quanto è grave il pericolo dell’estremismo islamico”. Santorum, che è anche ricercatore all’Ethics and Public Policy Center di Washington, sostiene l’iniziativa di Horowitz: “E’ da apprezzare, perché l’università è il luogo ideale per lo scambio di opinioni”. Per l’ex senatore il radicalismo islamico “è un problema molto serio: c’è chi vede negli Stati Uniti e nell’occidente soltanto dei nemici da combattere”. Di interventi in questa settimana organizzata da Horowitz ce ne sono tanti. E’ il caso dell’incontro organizzato dalla DePaul University, dove allo stesso tavolo erano seduti lo statunitense Robert Spencer e l’iraniano Amir Abbas Fakhravar. Il primo studioso di teologia e legge islamica e direttore del think tank Jihad Watch. Il secondo giovane dissidente costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti per scappare dal regime degli ayatollah, dove ha trascorso anni in carcere per le sue idee e dove è diventato il simbolo della protesta giovanile contro Teheran. La platea era per lo più composta da giovani di sinistra, che a ogni domanda aprivano una polemica. Non appena Spencer ha pronunciato la parola “jihad” è stato accusato di razzismo. Proprio come nello schema ricorrente denunciato da Horowitz.
Berlino. “‘L’onore dell’uomo si trova tra le gambe della donna’. Questa è una frase assai in voga nei paesi musulmani. Per questo sono fermamente convinta che la politica d’integrazione, se vuole avere successo, deve in tutto il mondo partire dalla condizione delle donne. Moltissime musulmane turche e curde sono a tutt’oggi costrette, per motivi culturali e religiosi, a una vita di tipo medievale” scrive Seyran Atefl nel suo libro appena pubblicato in Germania “Der Multikulti-Irrtum” (L’errore Multikulti, ed. Ullstein). Come Ayaan Hirsi Ali, anche Seyran Atefl è nota ben oltre i confini della Germania, paese in cui vive dal 1969. Nella sua professione di avvocatessa si è occupata soprattutto della difesa di donne musulmane, il che l’ha fatta diventare bersaglio di invettive e minacce, anche di morte, tanto da indurre la polizia a darle una scorta. Nonostante questo nel 2006, temendo anche per l’incolumità della figlia, ha chiuso il suo studio legale a Berlino. Secondo Atefl, il più grosso errore commesso dalla Germania, in particolare dai suoi politici, è stato quello di negare fino a poco tempo fa il grande dato di fatto: il paese è da almeno quattro decenni meta di immigrazione. “In quanto Gastarbeiter, cioè lavoratori ospiti, si è sempre pensato che prima o poi, fatti abbastanza soldi, oppure rimasti senza lavoro, gli stranieri se ne sarebbero a andati”. Ma ancora di più Atefl se la prende con un certo tipo di tolleranza, soprattutto quella “propagata dai fanatici del multiculturalismo”: “La vera tolleranza – così scrive – significa conoscere il prossimo, la sua cultura ed accettarlo. E’ l’esatto contrario dell’indifferenza e dell’ignoranza. Molti tedeschi, soprattutto molti militanti di sinistra, sono invece ancora convinti che il sogno della società multiculturale si avvererà prima o poi lasciando semplicemente che i fatti seguano il loro corso. Ma il multiculturalismo, così com’è stato vissuto fino a oggi, non è altro che irresponsabilità diventata sistema”. A dimostrarlo da una parte il fatto che i più disadattati, i più chiusi al contatto con i tedeschi sono i nipoti dei Gastarbeiter, è cioè la terza generazione, nata e cresciuta nel paese. Dall’altra una strisciante e preoccupante ‘sharizzazione’ della società. Non solo attraverso le richieste di introdurre e far rispettare norme del diritto islamico anche nella società occidentale, in particolare quelle che riguardano l’istituto del matrimonio e della famiglia. Ma di fatto mettendo spesso la società occidentale di fronte a fatti compiuti. Delitti d’onore e matrimoni coatti. Con un apparato di giustizia tedesco che a volte si mostra incline ad accettare l’eccezione, soprattutto quando riguarda le donne musulmane. “Per questo resto ogni volta esterrefatta quando nei dibattiti sento parlare di “cosiddetti” delitti d’onore. E’ come se non si volesse prendere ancora atto di un dato fondamentale di questa mentalità. Tutto ruota attorno all’illibatezza della donna. Ne va non solo della faccia del marito, ma di tutto il clan”. A provarlo sono appunto i delitti d’onore – e non solo omicidi, precisa Atefl – come quello di Hatun Sürücü, la ragazza curda uccisa nel 2005 dai fratelli a Berlino, perché voleva vivere all’occidentale. Leitkultur per immigrati Ci si appella alla sharia per chiedere l’esonero della figlia dalla lezione di ginnastica, affinché non diventi oggetto di pensieri impuri (e dunque non metta repentaglio il nome della famiglia). Affinché non si dia all’uomo sbagliato, è fatta sposare a 12 anni e visto che in Germania, ma anche in Turchia, è vietato, per unire la coppia c’è il cosiddetto matrimonio dell’imam. L’eguaglianza tra uomo e donna sancita dal diritto tedesco è vissuta come un’ingiustizia nei confronti del maschio musulmano. E’ vero che anche gli uomini non sono sempre d’accordo con i matrimoni combinati, ma possono poi sempre ricorrere a braccia femminili a loro più gradite. Che fare si chiede a questo punto Atefl? “In una società sempre più transnazionale com’è la nostra, c’è bisogno innanzitutto di un dibattito europeo che definisca precisamente e inequivocabilmente quali sono i valori e le tradizioni che ci contraddistinguono e che vanno difesi”. Qual’è la nostra Leitkultur, cultura guida, dalla quale non si prescinde? Rispetto dell’essere umano, libertà, eguaglianza, solidarietà tolleranza. “E la bontà di questi valori non dipende affatto dal loro rispetto in tutto il mondo” Soltanto così si darà un chiaro quadro di orientamento anche all’immigrato e una possibilità di vera integrazione, che non vuol dire affatto assimilazione. lettere@ilfoglio.it