lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
24.10.2007 L'arte a Ramallah, un altro pretesto per condannare il "muro" e "l'occupazione"
in un servizio di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 24 ottobre 2007
Pagina: 0
Autore: Francesca Paci
Titolo: «A Ramallah esplode l'arte»
I problemi dei palestinesi dipendono naturalmente "dal muro e dell'occupazione".
Anche un articolo su una rassegna d'arte a Ramallah è una buona occasione per ribadirlo.
I palestinesi intervistati e la giornalista dimenticano ancora una volta che senza terrorismo non vi sarebbe nessun muro e da tempo (almeno da Camp David) sarebbe sorto uno Stato palestinese.

Ecco il testo:


Alle sei del mattino i primi automobilisti sono già serenamente imbottigliati in piazza al Manar, il cuore di Ramallah. La città si sveglia presto come Ahmed, il decano del mercato Hesbi, melanzane e pompelmi grandi come palle da bowling. Due ragazzi si tengono a braccetto e osservano curiosi gli alieni, una ventina di persone che camminano per le strade illuminate dalle insegne Jawal e Coca Cola, scattano istantanee, parlano in italiano e inglese. Impossibile che siano turisti: a Ramallah non se ne vedevano neppure durante i colloqui di Oslo. Ma anche i giornalisti internazionali e gli operatori umanitari non frequentano l’hotel Grand Park dall’inizio della seconda intifada, molto meglio un reportage mordi-e-fuggi e l’albergo a Gerusalemme, oltre il check point.
Gli insoliti esploratori sono Stefano Boeri, Sandi Halil, Lorenzo Romito degli Stalker, Vincenzo Castella, architetti e fotografi ospiti della seconda Riwaq Biennale di architettura, una delle sessanta Biennali organizzate in tutto il mondo. Mappano lo spazio urbano percorrendolo a piedi, secondo la grammatica dell’arte contemporanea: sono qui e con la loro presenza, con l’incontro degli abitanti nella piena routine, con il progetto di una città futura sostenibile, rendono reale un Paese che ancora non c’è, la Palestina.
Difficile da spiegare al grande pubblico in generale, figurarsi ai giovani locali, compresi quelli laureati all’università di Bir Zeit che trascorrono il tempo libero fumando narghilé al caffè Sangria o sognano le avventure di «Ocean’s 13» tra le poltroncine di al Qassaba, l’unico cinema di Ramallah, 70 mila abitanti e neppure una stagione teatrale.
«Le nostre città sono in crisi specialmente a causa dell’occupazione e del muro», spiega Kouloud Daibes, ministro del turismo e dell’antichità. Il teatro quotidiano è bellico: «In uno scenario tanto cupo come possiamo discutere di arte nel contesto urbano, privo di infrastrutture, senza apparire superficiali?». Una domanda «occidentale», che rimbalza da una parte all’altra delle barriere visibili e invisibili in Terra Santa. Il mese scorso la Biennale di Herzilya, in Israele, poneva interrogativi analoghi: è immaginabile la contaminazione tra arte e architettura, cultura e politica, nella trincea della guerra permanente? L’artista di Tel Aviv Barak Ravitz sembrava scettico con le sue porte nere, saracinesche, strade senza uscita. A Ramallah la risposta è sì.
Dal 21 al 24 ottobre Riwaq, l’organizzazione non governativa palestinese che lavora per la tutela dei beni culturali e alla Biennale di Venezia 2007 contestò il padiglione israeliano, ha invitato alla sua seconda Biennale 107 architetti, fotografi, documentaristi, studiosi, artisti palestinesi e internazionali, a una full immersion nel paesaggio contemporaneo dei Territori, Ramallah, i campi profughi di Betlemme, Hebron dal cuore diviso, «un viaggio artistico al di là dei confini».
Immaginare la normalità. «Le Biennali, di solito, sono un carosello di sculture, installazioni frenetiche, eventi, come se l’arte fosse un vasto mercato sotto i riflettori», spiega il curatore, Charles Esche. «Abbiamo scelto di rimescolare le carte e offrire al visitatore una situazione più tranquilla concentrata sulla pianificazione». Nessuna esposizione catalizzatrice dunque, ma una serie di conversazioni, incontri, progetti bilaterali, workshop per confrontarsi e suggerire soluzioni. E va bene anche che Sami Mansur, ingegnere, 53 anni, il tempo libero al servizio del terzo partito palestinese ancora in fieri, domandi dove sono i quadri e le sculture. Legittimo: senza dipinti e statue che evento artistico è? Replica Charles Esche: «Un’omissione volontaria». Il vuoto come terreno vergine per suggerire il pieno che forse verrà.

Per inviare una e-mail alla redazione della Stampa cliccare sul link sottostante

lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT