Prosegue la polemica sulla lettera dei 138 "saggi musulmani" Ferrara replica ad Allam, Meotti spiega chi sono alcuni dei firmatari, il rabbino Di Segni sottolinea l'esclusione degli ebrei
Testata: Il Foglio Data: 24 ottobre 2007 Pagina: 3 Autore: Giuliano Ferrara - Giulio Meotti Titolo: «Come si fa un giornale che ha un'identità ma non una linea generale - Tra i firmatari, nemici di Khomeini, amici di Bush e maestri di Sistani - Per il rabbino Di Segni quell'amore dei 138 esclude gli ebrei»
Da FOGLIO del 24 ottobre 2007, la risposta di Giuliano Ferrara a Magdi Allam sul manifesto dei 138 ulema:
La disputa sulla lettera dei 138 saggi musulmani, pubblicata e commentata variamente e liberalmente dal Foglio, si è arricchita ieri di un nuovo intervento corrierista di Magdi Allam, formalmente corretto ma dal vago sapore censorio (l’ignoranza e l’ingenuità, dice Allam con una certa perentorietà, non sono ammissibili: e grazie tante). Nel merito della questione è ovviamente giusto che ciascuno esponga le proprie ragioni, nello stile meno asseverativo possibile, se gli riesca. Allam è convinto, come Panella, come Langone, come Lee Harris, tutte opinioni da noi sollecitate o ospitate accanto a quelle diverse di Scruton, di David Forte, di Samir, di Meotti e dei cardinali Tauran e Scola, che con quella lettera non si cava un ragno dal buco, peggio, che avallarla come una cauta apertura di dialogo politico e teologico, come una fatwa conciliante, sia un errore, forse addirittura un crimine inconsapevole. Dice in linea di principio che con un islamico si può dialogare solo se dismetta ogni possibile ambiguità sul tema della violenza antiebraica e antioccidentale o anticristiana, e se sia in grado di sacralizzare la vita rompendo il nesso che lega la cultura e la religione coranica al fondamentalismo che ama la morte più di quanto noi amiamo la vita, secondo la formula di bin Laden e dei suoi complici. Va bene in generale, è ovvio. Abbiamo scritto la stessa cosa, in contesti diversi da questo, almeno cento volte, se non mille. Stavolta ci è sembrato più serio esaminare in modo aperto, senza ripetere concetti come litanie, un testo la cui ambiguità aperturista e dialogante, sia per il suo tenore teologico sia per il suo senso politico sia per i suoi firmatari, farebbe scandalo o introdurrebbe contraddizione nelle moschee e nelle madrasse in cui si predica il jihad. Al di là di questo dissenso c’è una questione di metodo. Allam ha lavorato a Repubblica e ora è al Corriere. Repubblica, si sa come la pensi. Il Corriere ha dato e dà contributi pregevoli di analisi e informazione sullo scontro di civiltà in atto nel mondo, ma è un giornale prudente e plurale, in cui può perfino succedere che l’11 settembre venga ricordato, nel giorno anniversario, da Tariq Ramadan. Allam dovrebbe dunque sapere come sono fatti i giornali. Hanno, quando ce l’abbiano, un’identità, ma non una linea generale, custodita magari da cattedratici che ne spiegano le virgole e i punti di sospensione con il dito alzato. L’identità del Foglio è certa: è il giornale del dissenso islamico in Europa e nel mondo, che si batte solitario per una comprensione strategica della guerra in Iraq e per una rigorosa lotta al terrorismo, è il giornale dello Usa day e delle giornate per Israele. Ma non è un foglio di ortodossia anti-islamica, men che meno di professionismo anti-islamico, incapace di usare la ragione per capire le sfumature di senso in testi e fatti che gli si presentano davanti.
Un articolo di Giulio Meotti:
Roma. Uno dei firmatari della lettera dei 138 saggi musulmani, Nihad Awad, lo vedete nella foto qui a destra. E’ in piedi alla sinistra del presidente George W. Bush, all’inaugurazione del più grande centro islamico di Washington nel giugno scorso. Scelto da Clinton come consulente della Casa Bianca per i diritti umani, Awad nel 2000 fece campagna per l’allora governatore del Texas Bush. Magdi Allam ha ragione nel dire che alcuni firmatari flirtano con l’hooliganismo islamista. Ma il caso di Awad e di altri estensori, non immuni da tentazioni radicali, dimostra che la reazione doveva essere meno preventiva e ad hominem. Dentro c’è di tutto. A giugno Bush si rivolse ad Awad, direttore del Council on american-islamic relations, come a un “bravo ragazzo”. “Siamo venuti per esprimere il nostro apprezzamento per una fede che per secoli ha arricchito la civiltà” disse Bush. “Conserviamo nei nostri cuori l’antica speranza di uno dei grandi poeti musulmani, Rumi: ‘Le lampade sono differenti, la luce è la stessa’”. Bush auspicò la nascita in medio oriente di “società dove le persone possono vivere e pregare senza intimidazione, senza sospetto, senza un colpo alla porta da parte della polizia segreta. Il nostro paese è stato una voce guida a beneficio degli ebrei refusniks nell’Unione Sovietica. Gli americani hanno fatto causa comune con cattolici e protestanti che pregavano in segreto dietro la cortina di ferro”. Si rivolse ai leader dell’islam. “Dobbiamo aiutare milioni di musulmani a salvare una religione orgogliosa dagli assassini e dai tagliateste che marcano il terreno in nome dell’islam. Per decenni il mondo libero ha abbandonato i musulmani ai tiranni, ai terroristi, ai senza speranza. Io ho investito il cuore della mia presidenza ad aiutare i musulmani a combattere il terrorismo e a chiedere la libertà. Nel luogo della libera fede, diciamo a coloro che languono per la libertà da Damasco a Teheran: non sarete incatenati per sempre alla vostra miseria. Il mondo libero vi ascolta”. Awad strinse la mano a Bush al termine dell’incontro. Ha firmato Akbar Ahmed, detiene la cattedra Ibn Khaldun all’Università di Washington, ha tenuto lezioni al Pentagono, è fellow della liberal Brookings Instititution e ha inaugurato la cattedra di Studi ebraicoislamici all’Università dell’Illinois. Ahmed scrive per il Washington Post. Un altro firmatario è Muzamil Siddiqi, a capo del Fiqh C ouncil of North America. Vicepresidente dell’Academy of judaic-christian and islamic studies, Siddiqi ha partecipato alle preghiere organizzate alla Casa Bianca (una fotografia lo ritrae mentre dona una copia del Corano a Bush). A tre giorni dall’attacco alle torri, Siddiqi fu scelto in rappresentanza dei musulmani per commemorare i morti nella cattedrale diWashington. Intervenne dopo il reverendo Billy Graham, rivolgendosi a Dio: “Aiutaci nella nostra difficoltà, mantienici uniti come popolo di fedi, colori ed etnie diverse”. Un altro è l’iraniano Hossein Nasr, padre di quel Vali Nasr ricevuto alla Casa Bianca dopo l’inizio della guerra settaria in Iraq. Hossein fuggì da Teheran dopo l’avvento di Khomeini e sua moglie era la più stretta collaboratrice dello scià. Nasr è uno dei più ammirati studiosi di metafisica coranica, non un esponente dell’islam “ambiguo”. Sciita è il seyyed Jawad al Khoei, nella lettera fa le veci della Fondazione Khoei di cui faceva parte lo zio, l’ayatollah Abdel Majid al Khoei, amico di Tony Blair e ucciso a Najaf al rientro dall’esilio. Il capostipite Abol al Khoei fu mentore dell’ayatollah Sistani, senza il quale in Iraq non ci sarebbe stata la rivoluzione costituzionale che ha incrinato il terrorismo. I Khoei rappresentano la tendenza “akhbari” che dal XVII secolo riunisce gli sciiti che sostengono la separazione tra “hilafa”, direzione politica affidata al califfo, e “hilama”, direzione spirituale degli ulema. C’è la firma di un altro ayatollah, Hussein Ismail al Sadr, uno dei leader dello slum sciita che costeggia i limiti orientali e settentrionali di Baghdad. Mentre al Qaida assassinava i suoi fedeli, Sadr disse: “Sono i terroristi i nemici di sunniti e sciiti, musulmani o non musulmani. Sono i nemici di tutte le religioni”. Non manca quel Gran Muftì di Bosnia, Mustafa Ceric, che dopo Ratisbona invocò un papato forte, e disse al settimanale tedesco Zeit: “Un Papa timoroso non è una buona cosa per noi. Dalla nostra parte regna la paura”. La lettera porta la firma di quella Ingrid Mattson della North islamic society of America che dopo l’11 settembre scrisse: “Chi ha l’obbligo di fermare la violenza commessa da musulmani contro non-musulmani innocenti in nome dell’islam? I musulmani”. E l’intellettuale turco Ibrahim Kalin, direttore della fondazione “Seta”, teorico dei nuovi “fermenti democratici”. La lettera è stata voluta dal re Abdallah di Giordania, alleato di Stati Uniti e Israele in medio oriente, attraverso la sua fondazione Aal al Bayt, guidata dallo zio, il principe Hassan. Come ha spiegato Samir K. Samir, “Hassan rappresenta quanto di meglio oggi esiste nell’islam, dal punto di vista della riflessione, dell’apertura e anche della devozione”. Hassan è sposato a una indù che non ha dovuto convertirsi all’islam. Il principe Ghazi bin Talal, consigliere del re, ha detto che la fondazione “lavora per sradicare il terrorismo e il pensiero takfiri”. Il takfir è l’accusa di apostasia che porta alla morte di Sadat e alla fatwa contro Rushdie, è l’incubo che ha ingoiato decine di migliaia di musulmani in Algeria e Iraq. Dopo le bombe di Londra, Hussein chiese alla fondazione di emettere un editto contro il takfir, “diffamante pratica di dichiarare qualcuno ‘apostata’ che apre all’uccisione di innocenti in nome dell’islam”. Se è con questo spirito antifondamentalista che la fondazione della “Famiglia del Profeta” ha concepito la lettera dei 138, c’è solo da sperare che trovi ampia diffusione in una umma che dopo l’11 settembre ha partorito soltanto odio e morte.
Un'intervista di Giulio Meotti al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni:
Roma. Il Rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, ha accolto con scetticismo la lettera dei 138 saggi dell’islam ai leader cristiani. “Il primo elemento da evidenziare è quello di un’immagine positiva di disponibilità che emerge alla prima lettura e che potrebbe essere considerata un grande segno di cambiamento. Poi però riflettendo sulle circostanze in cui è stata scritta e come è stata formulata emergono una serie di dubbi”. Il primo è dal punto di vista ebraico. “Parlo dell’esclusione della realtà ebraica vivente e attuale da questo documento dei 138 saggi musulmani. Gli ebrei quando sono citati sono sempre tra parentesi. Come una sorta di entità astratta e archeologica. Le citazioni all’ebraismo sono riferite all’Antico Testamento, come se ci fosse una volontà specifica di escludere l’attualità ebraica da questo discorso. L’altro dubbio riguarda la grande dichiarazione d’amore che anima tutto il testo, mi viene da riflessioni più generali sul senso del modo di fare dialogo oggi. Ho l’impressione che ci sia la tendenza e il rischio, nel modo con cui alcune religioni si presentano di fronte all’opinione pubblica, di presentare le cose come se si dovessere vendere una merce con la pubblicità. Quando si fa pubblicità in televisione o sui giornali, c’è dietro una sorta di indagine di mercato dalla quale si cerca di capire cosa interessa e cosa colpisce, vediamo messaggi come la serenità, la leggerezza e l’allegria. Il rischio è che le religioni si presentino come uno spot pubblicitario. Per questo osservo con distacco le dichiarazioni di centralità del tema dell’amore nella lettera dei 138. L’amore è presente in ogni religione, ma è un aspetto dei tanti. C’è questa tendenza a cancellare qualsiasi problema che resta mettendolo sullo sfondo, allontanato verso il margine, e questi rappresentanti dell’islam hanno come approfittato di questo trend mettendoci dentro il loro contributo. Vendono amore per Dio e per tutte le creature. Questo grande coro di amore universale che sembra tanto bello in apparenza, a me ispira un’istintiva diffidenza. La realtà è differente. Andrei cauto dunque nelle celebrazioni trionfalistiche, denunciando le contraddizioni che queste affermazioni possono nascondere”. Il rabbino non pensa che il testo riuscirà a incidere sulla carica fondamentalista che assedia il mondo islamico e che si tramuta in odio per Israele. “E’ forse un’operazione di facciata, dobbiamo vedere con i problemi specifici qual è la loro risposta. E se si riuscisse ad avere da uno di questi esperti una risposta autentica sui singoli problemi di conflitto, vedremo che è diversa dalla lettera. Al mondo ebraico non hanno spedito questo documento”. Di Segni recentemente è andato in visita alla moschea di Roma. “Era un gesto di volontà per la pace vera. Ancora non riusciamo ad avere la visita dei rappresentanti dell’islam nella sinagoga. E’ pericoloso per un rappresentante dell’islam, anche fisicamente, avere a che fare con le istituzioni ebraiche, persino a livello locale. Al mondo ebraico non è stata tesa alcuna mano, indice di quanto siano discutibili queste forme di dichiarazione”. Apre invece all’idea del cardinale Angelo Scola che la lettera sia realistica, a differenza di tanti altri precedenti. “Mettersi d’accordo su obiettivi concreti è l’unico modo per superare i contrasti teologici. Se il documento va in questa direzione, lo vedremo con il tempo, è presto per dirlo. Dal punto di vista pragmatico per adesso emerge soltanto la volontà di escludere gli ebrei”. (gm)
Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante lettere@ilfoglio.it