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Come le mosche d’autunno Irčne Némirovsky
Traduzione di Graziella Cillario
Adelphi Euro 9
Lanciata in Italia da Adelphi, che ne sta traducendo tutti i racconti e i romanzi, Irčne Némirovsky non smentisce il suo stile raggelato (mai un cedimento, mai un sospetto di sentimenti trepidi o nostalgici, bandita l’emozione del rimpianto) e la sua capacitŕ di dipingere il declino, la decadenza, l’eclissarsi di ogni senso del futuro. Irčne č una leggiadra pessimista, una messaggera della Grande Crisi sorridente e ombrosa, una seduttrice che ci illude di non farsi carpire dall’angoscia per il tramonto della vecchia Europa. Ogni sua storia, lunga o breve, da Il ballo a Suite francese e a Jezabel, apologo magistrale sulle imprese delittuose di una “femme fatale”, č un affacciarsi sull’orlo dell’abisso tra giochi di luce, profumi, gioielli, amori svaporati e fiumi di champagne. E le atrocitŕ che si abbattono sui suoi personaggi ci sono offerte col distacco e la precisione clinica con cui si affronta un teorema matematico.
L’ultimo libro, Come le mosche d’autunno, uscito in Francia nel 1931, č una vicenda che si consuma rovinosamente, e col consueto tono freddo e vagamente artificiale, lungo un centinaio di pagine. Stavolta l’autrice si applica alla descrizione di una famiglia di aristocratici russi, i Karin, spinti alla fuga dalla loro terra dal ciclone bolscevico (destino condiviso dall’ebrea ucraina Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, morta ad Auschwitz nel 1942 e rifugiatasi a Parigi per la rivoluzione). Il centro dello sguardo narrativo č quello della “njanja”, ovvero la nutrice e governante, di nome Tat’jana Ivanovna. E’ stata lei la balia del padrone di casa, č stata lei a crescerne i figli. Salda come una roccia per fedeltŕ, solerzia, impermeabilitŕ ai cambiamenti, sembra uscita come una particella minuta e viva dagli affreschi di Guerra e Pace: uno di quei domestici incrollabili, ed estranei a logiche politiche e belliche, che sbalzano dagli sfondi delle tolstoiane famiglie di campagna (vedi quella del principe Andrei Bolkonskij).
Tat’jana č vecchia e al tempo stesso č una bambina, sente nei Karin tutte le proprie radici, ignora i passaggi di Storia. Ama la neve che sa di ghiaccio e fuoco, si segna spesso col gesto della croce, rammenda calze presso la finestra, si figura gli orrori della guerra con grazia e spettacolaritŕ, come in un’illustrazione per ragazzi: un campo di cavalli al galoppo tra fulgide esplosioni di granate. E’ lei ad accompagnare e a benedire i due maschi dei Karin, Jurij e Kirill, che partono per andare a combattere nella notte russa, densa di fumi lontani e sentore di abeti. E quando il fuggiasco Jurij ripara nella tenuta di famiglia, coi contadini che ormai dettano norme e impongono condanne, č lei a farsi trovare ad accudirlo (siamo nel ’18, i Karin sono giŕ scappati). Jurij sarŕ ucciso da un cocchiere, vendicatore proletario alla riscossa, e Tat’jana assiste all’esecuzione impotente e stupefatta. E’ ancora lei a salvare i suoi padroni coi diamanti di famiglia che tiene cuciti nell’orlo della gonna, raggiungendo a piedi, con un cammino di tre mesi, il loro rifugio di Odessa. Da lě, negli anni venti, i Karin arrivano in Francia, prima a Marsiglia e poi a Parigi, accolti in quattro stanzette buie dove vivacchiano nella memoria dei fasti trascorsi. E mentre il giovane Kirill e sua sorella Loulou si stordiscono tra fumo e vodka scadente in un faticato susseguirsi di giri a vuoto, “come mosche d’autunno”, Tat’jana sogna invano gli imponenti inverni russi e scorge polvere ovunque nella casa. Polvere in forma di cenere, patina uniforme che si poggia persistente e lieve sugli oggetti. La visione ci suggerisce quanto sia prossima la fine. Sarŕ facile e soave precipitare nella morte, una di quelle morti ironiche, eleganti e senza gridi di dolore che piacciono alla Némirovsky.
Leonetta Bentivoglio
Almanacco libri -
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