Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Se l'Iran rinunciasse alla bomba e a distruggere Israele potremmo evitare la guerra l' "analisi" di Renzo Guolo si riduce a questa tautologia
Testata: La Repubblica Data: 21 ottobre 2007 Pagina: 1 Autore: Renzo Guolo Titolo: «Il domino di guerra in Medio Oriente»
Ali Larijani, negoziatore iraniano sul nucleare, si è dimesso dopo essere stato pubblicamente smentito dal presidente Ahmadinejada propositodi possibili garanzie della Russia di Putin sulla destinazione civile del programma.
E' dunque sorprendente che, commentando la vicenda, Renzo Guolo, sulla REPUBBLICA del 20 ottobre 2007 torni a proporre l'opzione di un nucleare civile iraniano "garantito internazionalmente". Opzione che, per altro, ha perso di ogni credibilità già quando si è scoperto che il regime di Teheran stava ingannando la comunità internazionale sull'arricchimento dell'uranio.
Guolo descrive a tinte fosche lo scenario di destabilizzazione che si aprirebbe nel caso di un attacco preventivo all'Iran. Ma non appare nemmeno a favore dell'unica opzione che potrebbe realisticamente impedire sia la guerra che un Iran atomico: ovvero l'applicazione di sanzioni efficaci. Ritiene invece necessaria una "maggiore duttilità". Espressione vuota, dato che l'unica indicazione in merito fornita da Guolo (accettazione di un programma nucleare iraniano esclusivamente civile) è come abbiamo visto irrealistica.
Irrealistica è anche la prospettiva che la contropartita politca fornita dall'Iran includa la "fine dell'atteggiamento ostile verso Israele" che caratterizza il regime degli ayatollah fin dal suo insediarsi.
Probabilmente, però, Guolo non è realmente interessato a valutare seriamente la plausibilità delle alternative allo scontro (militare o politico-economico) che propone.
L'unica cosa che davvero gli interessa è evitare lo scenario che descrive all'inzio dell'articolo, nel quale un attacco all'Iran scatena una crisi incontrollabile. A questo proposito, però, crediamo che avrebbe dovuto rivolgere a se stesso una semplice domanda: come cambierebbe questo scenario, se si verificasse con un Iran ormai nucleare ?
Ecco il testo:
Venti di guerra sul Medioriente. E non solo. Bush evoca la possibilità di una terza guerra mondiale se l´Iran avrà l´atomica; e pare preparare l´opinione pubblica all´idea di un nuovo, più limitato, attacco preventivo "per scongiurarla". Ma che la "piccola guerra" resti tale è pura illusione. Nella pianificazione strategica Usa l´attacco è destinato non solo a annientare i siti nucleari iraniani ma anche buona parte delle strutture belliche della Repubblica Islamica. In particolare quelle dei Pasdaran, i tenaci guardiani della rivoluzione islamica . Il Pentagono prefigura una "campagna lunga". Una replica dell´operazione contro la Serbia più che di quella israeliana contro l´Iraq. Insomma più Belgrado che Osirak. Ma l´Iran non è il debole Iraq di Saddam o l´isolata Serbia di Milosevic: il suo apparato militare e il nazionalismo farsi non sono da sottovalutare. Teheran risponderebbe duramente a un attacco: anche in modi non convenzionali, colpendo obiettivi sensibili negli Usa e nei paesi europei che appoggeranno Washington. L´incendio si allargherebbe naturalmente al Medioriente e all´Asia Centrale. Non solo l´Iran, ma anche Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, attaccherebbero Israele. Già dilaniato dalle tensioni etnoreligiose il Libano esploderebbe sotto la duplice pressione del "Partito di Dio" e del regime di Damasco. La Siria, legata all´Iran da un patto di assistenza militare, potrebbe difficilmente restare a guardare. Israele dovrebbe così rispondere a più attacchi concentrici; e se anche il regime alawita di Assad figlio cadesse, le porte di Damasco potrebbero spalancarsi a nuovi e più temibili avversari. Come già in Iraq, la dissoluzione del baathismo siriano rafforzerebbe i movimenti islamisti sunniti, in particolare i Fratelli Musulmani, radicati nel paese nonostante il massacro di Hama ordinato da Assad padre nel 1982 . Non resterebbe certo indenne dalle ripercussioni l´Iraq: le forze filo-iraniane sciite aprirebbero le ostilità contro le truppe americane. A quel punto il paese si disintegrerebbe; ma non secondo le geometriche e artificiali linee ipotizzate dagli strateghi Usa, tornati a guardare con favore alla spartizione del paese in tre "entità federali" etnicamente omogenee. In questa partita a domino gli iraniani colpirebbero anche le monarchie del Golfo, a partire da quella saudita, fomentando disordini tra le minoranze sciite nei paesi rivieraschi. Con lo stretto di Hormuz in fiamme, gli approvvigionamenti mondiali di petrolio e gas ne risentirebbero. Le conseguenze sull´economia mondiale sarebbero immediate. Il conflitto si estenderebbe anche all´Afghanistan, dove Teheran può contare sugli sciiti hazara e su qualche prezzolato e ben armato "signore della guerra". In questo drammatico scenario sarebbe coinvolto anche il contingente Isaf nel "paese dei monti" e quello Unifil nel "paese dei cedri": le forze armate italiane, impegnate nella provincia di Herat e nel sud del Libano, si troverebbero così sovraesposte. Quanto al terrorismo jihadista sunnita, pur non in buoni rapporti con il radicalismo sciita iraniano, troverebbe nuova linfa nell´additare, per l´ennesima volta, al mondo della Mezzaluna, l´Occidente come "nemico dell´Islam". Tutto lascia ,dunque, prevedere che quello con l´Iran sarebbe un conflitto destinato a internazionalizzarsi e a far impallidire quello iracheno. Certo, la questione della "bomba di Teheran" esiste e non lascia tranquillo nessuno, Israele in primis; rischia inoltre di innestare una corsa alla proliferazione di paesi come l´Arabia Saudita, storico nemico dell´Iran. Ma forse vi è ancora modo per evitare di tagliare gordianamente il nodo. Se la pressione sull´Iran, destinata a sfociare a breve, secondo Washington e Parigi, in più dure sanzioni extra-Onu, mira a prevenire sviluppi indesiderati e a mettere in sicurezza gli stati della regione, occorre una maggiore duttilità. Magari a partire dal riesame del netto "no" al nucleare civile di Teheran garantito internazionalmente, sin qui pronunciato da Stati Uniti e quello che fu il gruppo Ue-3. Una strada che passa inevitabilmente per Mosca: non è un caso che Putin non abbia preso impegni con gli iraniani sul completamento della centrale di Busher. Una carta di riserva che conta di giocare per porsi come eventuale mediatore e garante di un accordo sul "nucleare controllato". A Washington, però, questa strada non piace: rafforza il Cremlino e non mette fuori gioco il regime degli ayatollah. In riva al Potomac vi è poi scetticismo sul fatto a Teheran esistano credibili interlocutori capaci di imboccarla. Una simile opzione presuppone, infatti, la messa in mora dei gruppi radicali che sostengono Ahmadinejad e quelli più oltranzisti legati alla guida Khamenei da parte dei pragmatici di Rafsanjani e dei riformisti centristi legati all´ex-presidente Khatami. Di fonte alla minaccia di distruzione del regime, pragmatici e riformisti dovrebbero rompere gli indugi e aprire lo scontro con le altre fazioni. E´ vero che, sin qui , i tentativi di trovare una sponda interna sono falliti; ma oggi Rafsanjani è più forte che in passato: ha nelle mani le chiavi della successione di Khamenei e il sostegno trasversale di quanti, pur di sbarazzarsi di Ahmadinejad e del suo avventurismo politico, sono disposti ad accettare un compromesso. Ma se a questi possibili interlocutori non si concede qualche chance per condurre una partita che può comportare persino la loro definitiva liquidazione, radicali e conservatori religiosi avranno buon gioco nel richiamare tutti a serrare i ranghi. Le fresche dimissioni di Larijani, sin qui capo negoziatore ma in divergenza con Ahmadinejad sulle modalità negoziali, avvenuta alla vigilia del vertice romano con Solana, la dice lunga sulle tensioni interne al gruppo dirigente iraniano. Il fatto di averlo sostituito con Said Jalili, più affine al presidente, non segna però la fine della partita. Larijani, vicino a Khamenei, si è dimesso e non è stato estromesso; questo significa che i critici di Ahmadinejad sono aumentati nelle fila del regime e che le proposte di Putin hanno lasciato il segno. E, di fronte al precipitare della crisi, potrebbero far pesare il loro dissenso. Lo scambio politico con quanti non si riconoscono nella linea di Ahmadinejad dovrebbe avere come oggetto il riconoscimento, da parte della comunità internazionale, del ruolo dell´Iran come potenza regionale in cambio di garanzie non solo sull´uso civile del nucleare ma anche sulla fine dell´atteggiamento ostile verso Israele . L´opzione "aperturista", o soft , non presuppone, dunque, la caduta del regime iraniano; affidata piuttosto alle dinamiche interne derivanti dalle conseguenze politiche, economiche, culturali di lungo periodo connesse a una maggiore apertura all´Occidente. Ipotesi, invece, implicita nell´uso dell´hard power, che privilegia non solo la soluzione manu militari della questione nucleare ma anche obiettivi come il regime change o, quantomeno, la cancellazione dell´Iran come attore regionale nel "Grande Medioriente". L´analisi dello scenario è decisiva per capire come affrontare il pericoloso avvitamento della crisi iraniana.
Per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica cliccare sul link sottostante