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La Stampa Rassegna Stampa
21.10.2007 Larijani, "duttile e colto" diplomatico di un regime criminale
ha affascinato l'Europa, e Mimmo Càndito

Testata: La Stampa
Data: 21 ottobre 2007
Pagina: 14
Autore: Mimmo Càndito
Titolo: «Il pupillo di Khamenei che piace all'Europa»

Una minaccia terroristica contro Israele viene descritta come un esempio di arte diplomatica.
L'abilità  a temporeggiare nei negoziati permettendo il progredire del programma nucleare iraniano è una "colta duttilità" che si nasconde dietro un'intransigenza che per altro è
"nazionalista, prima ancora che «rivoluzionaria» ".

Nel ritratto che ne fa Mimmo Càndito su La STAMPA del 21 ottobre 2007, Ali Larijani, dimissionario negoziatore iraniano sulla questione nucleare, appare come un fascinoso intellettuale.
Persino le sue tirate sull'ideologia "occidentalista" e sul pregiudizio "orientalista" che sarebbero insiti nell'opposizione a che un paese che ne vuole distruggere un altro e che sponsorizza il terrorismo nel mondo si doti di armi nucleari, vengono citate come se fossero plausibili.

Ecco il testo:

Un giorno che, durante la trattativa sul nucleare, chiesero ad Ali Larijani del rischio che Israele potesse attaccare «preventivamente» l’Iran, lui non ebbe una reazione immediata. Si grattò leggermente la barba, come a cercare il tempo quieto d’una risposta, poi scrollò appena le spalle. «L’Entità sionista - disse piano - dovrebbe avere la saggezza di capire quali conseguenze ne deriverebbero». Nulla più. Erano le parole d’un diplomatico, d’uno che, prima di dire quello che pensa, si piega a misurare e pesare ogni gesto, e ogni possibile interpretazione; e comunque, alla fine, mai dice quello che veramente pensa. Solo, lo lascia immaginare. E in quella «saggezza» che lui richiamava con qualche vaghezza allusiva c’era, però, e preciso, inequivocabile, il disegno d’un inferno di ferro e di fuoco. Che «l'Entità sionista» ne prendesse nota.
Quando l’ayatollah Khamenei lo nominò a capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 2004, subito dopo che Larijani aveva corso per la Presidenza ma era arrivato soltanto quinto, e con appena il 5 per cento dei voti, il commento di tutti fu che la scelta imprimeva un cambio drammatico, al negoziato con l’Agenzia Atomica per la «bomba» che l’Iran stava, forse, assemblando. I colloqui con El-Baradei prima di lui li aveva guidati Hassam Rowhani, un funzionario pragmatico, uno che faceva poca ideologia e tanti fatti (i fatti, magari, li diceva più che farli, in quella trattativa estenuante e sottile, ma si mostrava disponibile quanto meno a parole e intanto guadagnava tempo); Larijani cambiò approccio di brutto. Disse del suo predecessore, che pure era un suo vecchio amico: «Eh, Hassam stava dando una perla in cambio d’un confetto. Ora faremo altri conti».
Larijani è uno dei pupilli del regime khomeinista, uno che conta, uno che ha sempre servito fedelmente gli ideali della rivoluzione sciita e le sue linee politiche fondamentali. Quando lo nominarono ministro della Cultura e presidente della Tv di Stato, mise subito le mani avanti: «I problemi del mio popolo sono al 75 per cento di natura economica, e solo al 5 per cento di natura vagamente culturale»; intendeva dire che al suo ministero, e in questa poltrona che gli avevano dato, si badava poco a far chiacchiere e a discutere di arretratezze.
Quello che contava era la Rivoluzione e i progetti che la Rivoluzione aveva. Fu per questo che, in quei suoi 10 anni all’Irib, tagliò severamente ogni apertura ai media stranieri, impresse alla tv una rigida ortodossia, e dettò ordinanze che riportavano dentro uno stretto controllo le tensioni liberali (comunque solo vagamente liberali) che il suo predecessore, Khatami, aveva seguito con spirito conciliante, nella società e nei fermenti giovanili delle università. Il suo slogan preferito non lasciava dubbi, e anche lo ripeteva spesso: «Se le riforme non sono fatte per appoggiare lo spirito della religione, il principio di giustizia, e i valori della morale, allora non sono riforme».
Nato nella città santa di Najaf, figlio dell’ayatollah Hashem Amali, genero dell’ayatollah Morteza Motaharri, con un pedigree inappuntabile per le sue ambizioni di carriera nel regime, Ali Larijani è stato anche uno dei capi Pasdaran durante gli anni duri della guerra con l’Iraq; e su quella esperienza di militante e di combattente ha poi formato un carattere che, morbido all’apparenza, è - dentro - duro, inflessibile. E a Solana che incontrava nella fase delle trattative sull’arricchimento dell’uranio, un giorno disse brusco: «Si ricordi che noi non siamo un piccolo sceiccato del Golfo. Noi siamo una grande civiltà nella storia del pianeta».
Larijani non è un fanatico, uno di quelli che lo sciismo lancia sulle barricate dell’intransigenza fideistica. Laureato in Filosofia e poi in Scienze matematiche, autore di alcuni testi critici su Immanuel Kant, è stato sempre apprezzato dai suoi interlocutori europei, durante il negoziato nucleare, per la qualità delle argomentazioni e per la duttilità della elaborazione. Ma, sempre, aggiungeva nella sua dialettica una nota amara di critica imputando - ai ragionamenti che gli venivano proposti - l’accusa d’essere troppo legati alle concezioni dell’«orientalismo», fallaci e penalizzanti per via dell’occidentalismo su cui poggiavano l’impianto ideologico.
È questa sua colta duttilità - sotto l’abito d’una intransigenza che comunque è nazionalista, prima ancora che «rivoluzionaria» - che nelle ultime fasi del negoziato lo aveva allontanato dal presidente Ahmadinejad, mettendo a confronto le ragioni cogenti di un leader in crisi di consenso con le necessità d’una linea negoziale che deve anzitutto tener conto degli interessi «nazionali»; e le dimissioni più volte offerte, questa volta sono state accettate

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