Da PANORAMA del 20 ottobre 2007:
Dietro le storiche colonne di Palazzo Borbone i deputati francesi hanno creato la commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni in cui è avvenuta, lo scorso 24 luglio, la liberazione delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese, incarcerati in Libia con la delirante accusa d’aver inoculato il virus dell’aids nel sangue di centinaia di bambini. Il parlamento vuol sapere che cosa Parigi abbia promesso a Tripoli per sbloccare la drammatica situazione. Ma la vicenda tiene banco anche nelle librerie. È uscito in Francia (Oh! Editions, Parigi) un libro scritto dall’infermiera Kristiyana Valcheva, 48 anni (nella foto), s’intitola J’ai gardé la tête haute (Non ho piegato la testa) e ha per sottotitolo «Otto anni d’orrore nelle prigioni libiche». Ecco qualche passo tratto dal libro denuncia.
La scoperta dell’infezione
La scoperta dell’infezione all’ospedale infantile di Bengasi sconvolge gli specialisti e l’intera società libica (…) Il colonnello Gheddafi riceve i genitori dei bambini malati di aids. Promette che le cause dell’epidemia saranno chiarite e i colpevoli severamente puniti. (…) La cellula investigativa incaricata di questo dossier viene posta sotto la responsabilità di un generale, che mi interroga e che vuole assolutamente sentirmi dire una cosa: che dietro questo presunto complotto c’è il Mossad israeliano.
Nella cella immonda
Non abbiamo mai capito come e perché abbiano scelto proprio noi quale capro espiatorio. Perché mai hanno designato proprio me come l’infame organizzatrice di un piano complicato e surreale? (…) Nella mia cella immonda, sul mio ripugnante materasso, isolata nel buio, cercavo risposte che non trovavo. Bisognava tener duro. Bisognava aspettare la fine dell’incubo. Sopportare la puzza e la sporcizia, attendere il rumore d’una porta, un filo di luce al momento in cui mi davano un po’ di cibo. E subire quasi ogni notte la stessa litania: Mossad, Mossad, Mossad
Un mese senza lavarmi
Il mio corpo è tanto sporco da puzzare come la carogna d’un animale. Non mi lavo da un mese. La cella è umida. Impregnata d’un odore d’ammoniaca, di solitudine e d’urina, che deborda dalla scatola che mi hanno dato per i miei bisogni. Mi chiedo se un giorno la sete mi spingerà a berla. Preferisco non pensarci.
Frustate e bastonate
Mi hanno massacrata con frustate e bastonate. Mi hanno anche attaccata alla finestra, legandomi ai polsi; toccavo a malapena il suolo con la punta dei piedi. Mohammed mi ha sputato in faccia. Ha preso della cenere e me l’ha messa in bocca. Poi ha continuato con una sigaretta sui piedi, avvicinandola proprio là dove cominciano le unghie e tenendola immobile senza mai toccare la pelle.
Fili elettrici alle dita dei piedi
Un giorno mi hanno fatto sdraiare su un materasso e mi hanno attaccato dei fili elettrici alle dita dei piedi. Di fronte a me stava seduto il capo della scuola per cani poliziotto. Ho guardato la macchina, che sembrava un telefono a manovella, ma generava scariche elettriche. Il dolore era paralizzante. Se una sensazione fisica può corrispondere alla follia, è proprio quella. Non si riesce a riprendere il controllo di se stessi per ridurre la sofferenza. Non c’è una sola cellula del proprio corpo che sfugge al dolore.
Dov’era Dio?
Un giorno, alzandomi dal lettino su cui mi stavano torturando, mi sono accorta d’aver perso i capelli dopo che mi avevano applicato un elettrodo sul capo (...). Devo averli persi mentre mi contorcevo. Quando mi infliggevano le scariche elettriche, quasi incosciente, gridavo «Oh, Maika», che in bulgaro vuol dire mamma. Loro, credendo dicessi «Oh my God», obiettavano: «Dov’è il tuo Dio? Non è qui!». Anch’io pensavo che non mi fosse accanto.
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