L'arma più micidiale della prossima guerra del Golfo è nata sul lago di Como, non lontano dalle ville dei divi di Hollywood. Non è una bomba atomica, né un missile intercontinentale: è una barca ad alta tecnologia, lunga 16 metri e veloce come un fulmine. Sul mare non la batte nessuno, corre e salta senza temere rivali: è stata progettata per conto della Finanza e ha sempre umiliato gli scafi blu dei contrabbandieri. Un bolide da 70 nodi l'ora. I Guardiani della rivoluzione, il braccio armato della teocrazia iraniana, ne hanno capito subito le potenzialità: uno sciame di 20 o più Levriero, questo il nome delle fuoriserie nautiche, con piloti votati al martirio può mandare in tilt le difese della flotta statunitense. Per questo gli emissari di Teheran nel 1998 si sono presentati nello stabilimento della Fb design e hanno comprato tutto: disegni, prototipi, materiali e quanto serviva per produrre in patria l'intero catalogo di super-battelli da record con la carena. Così i pasdaran sono diventati l'armata più veloce del Golfo, con centinaia di superbattelli per sbarrare la rotta del petrolio.
Quella delle piccole motovedette lombarde è solo una delle tante storie che spuntano dal lato oscuro dei rapporti tra Italia e Iran. Come le processioni dei camion Iveco trasformati in rampe per missili proibiti. Come le centinaia di propulsori Isotta Fraschini, l'aristocrazia dei pistoni, che spingono la flotta della milizia più integralista. Come i pezzi di ricambio per elicotteri Agusta e cannoni Oto che per decenni sono continuati ad arrivare nella Repubblica islamica: le due aziende avevano prenotato stand anche nell'ultima fiera aerospaziale di Kish, vetrina dello shopping bellico iraniano. O come le tonnellate di componenti per progetti nucleari e missilistici uscite dai capannoni di fabbriche padane. Tutto alla luce del sole: persino il Cnr finanziava ricerche congiunte per inventare diesel futuristici con gli atenei di Teheran.
Poi dalla caduta di Saddam Hussein il clima è peggiorato: gli americani hanno cominciato a fare pressioni sul governo Berlusconi perché le forniture più pericolose cessassero. Nel 2005 su richiesta di Washington l'ultimo dei superscafi Levriero messo a punto sul lago di Como è stato bloccato: doveva combattere con i Guardiani islamici, è finito nei ranghi della Guardia di Finanza nostrana. Non senza che a Teheran si irritassero, incassando subito la ricca fidejussione depositata dal cantiere come garanzia: perché l'Iran è un cliente ricco, a cui le banche nazionali non vogliono creare fastidi. E non solo loro. Il 'dirottamento' del Levriero è stato tenuto segreto dalle autorità per non disturbare il grande business: un interscambio da 5.179 milioni di euro nel 2005, saliti l'anno scorso a 5.718. Un tesoro che spesso cancella gli scrupoli.
Ora che i tamburi di guerra nel Golfo sono sempre più forti e che le Nazioni unite si preparano a discutere un vero embargo, quei gioielli made in Italy nei video della propaganda iraniana cominciano a creare qualche imbarazzo. Come il logo Iveco su decine di semoventi lanciamissile fatti sfilare davanti al palco di Ahmadinejah per celebrare la rivoluzione islamica. Dal 1995 la casa torinese ha esportato diverse migliaia di camion in Iran: in parte direttamente, in parte come kit assemblati dalla Zamyad in Iran. Sono tutti veicoli civili, robusti e potenti: nessuno sa dire quanti siano stati rivenduti dallo stabilimento locale alle brigate dei pasdaran. Tecnici iraniani vi hanno poi installato rampe d'origine sovietica e nuovi missili di produzione nazionale. Quelli nella foto a pagina 54 possono colpire a una distanza di 200 chilometri e c'è il sospetto che li abbiano regalati anche agli hezbollah libanesi: basta un telone per occultare l'arma e confondere l'Iveco truck nel traffico caotico di tir sulle strade del Medioriente. Metamorfosi simili avrebbero reso i veicoli del gruppo Fiat piattaforme per i missili antinave comprati in Cina e in Corea del Nord. Anche il peso massimo Trakker Mp720, un bestione a sei ruote motrici, sarebbe stato usato per lanciare ordigni balistici a lungo raggio, i famigerati Shahab che possono attaccare Israele. E che un giorno, se il programma atomico di Teheran dovesse avere esiti bellici, potrebbero caricare testate nucleari. Tutto sempre sotto le bandiere dei Guardiani della rivoluzione.
Fino al 2005 gli interventi per ostacolare le vendite di prodotti italiani con potenziali usi militari sono stati scarsi. Tutto è cambiato con la vittoria di Ahmadinejah e le sue dichiarazioni sempre più radicali. La pressione statunitense ha costretto anche Roma a muoversi. Cercando di mettere il silenziatore ai divieti per evitare attriti con gli ayatollah. Così, all'inizio del 2006 il governo Berlusconi ha fatto sapere all'Isotta Fraschini che le attività con l'Iran non "erano più opportune". L'azienda statale del gruppo Fincantieri aveva già consegnato 210 motori alla Marine Industries, ditta con un indirizzo eloquente: Pasdaran avenue. La società adesso è finita nella lista nera dell'Onu: costruisce i mezzi navali d'assalto per i commandos iraniani. Nonostante non fosse obbligata a farlo, l'Isotta Fraschini aveva sempre comunicato ai ministeri ogni dettaglio degli accordi con Teheran: la seconda commessa da 23 milioni di euro prevedeva ben 250 propulsori, destinati a far correre un altro centinaio di scafi super-veloci. Un'arma strategica per la guerra asimmetrica degli ayatollah. Tanto che gli americani si sono infuriati. E così Palazzo Chigi nella massima riservatezza ha fatto stracciare il contratto. Un duro colpo per i Guardiani della rivoluzione. Ma anche per gli operai della fabbrica barese che rischiano la disoccupazione.
Una delle centrali meno insospettabili del programma bellico iraniano era in via Barberini, nel cuore di Roma. Quasi tutto lo shopping europeo destinato agli arsenali dei pasdaran ha fatto riferimento a quella filiale della Sepah Bank. L'ultimo caso è del Natale 2006: quando le Nazioni unite hanno congelato i conti della Shig, l'azienda iraniana che costruisce i missili intercontinentali, il programma è andato avanti con il sostegno della banca romana. Lettere di credito sono state emesse per comprare apparecchi speciali in Germania attraverso società di copertura. Anche i super-scafi lariani sono stati pagati tramite la Sepah. Il dossier sull'istituto è monumentale. Da Washington il sottosegretario del Tesoro Stuart Levey ha accusato l'istituto iraniano di avere finanziato i piani segreti delle forze armate: la filiale romana dal 2000 in poi avrebbe avuto un ruolo determinate nei contratti per le fabbriche di missili. Dopo l'Onu e gli Usa si è mossa anche Bankitalia. Un'ispezione nei locali di via Barberini ha fatto emergere anomalie tali da disporre il commissariamento, decretato il 30 marzo scorso. Cosa hanno trovato gli ispettori di Draghi? Top secret.
Da allora per gli emissari di Teheran la ricerca di materiali in Europa si è fatta più difficile. Ma aggirare l'embargo non è un problema. Basta una società di comodo in Dubai o negli Emirati. Come è accaduto per i pezzi di ricambio degli elicotteri Agusta, velivoli acquistati ai tempi dello scià e rimasti efficienti in barba alle sanzioni. E se gli iraniani non riusciranno a comprare, allora copieranno. Nei lunghi anni della guerra con l'Iraq sono diventati maestri della riproduzione. L'ultimo colpo, mostrato con orgoglio dalla tv di Stato, è la clonazione di due apparati della Oto Melara: un missile antinave, chiamato Sea Killer, e il più famoso cannone a tiro rapido, il 76/62 il bestseller delle artiglierie venduto in centinaia di esemplari dalla fabbrica spezzina alle flotte di tutto il mondo. Quello che gli ingegneri di Teheran non sanno riprodurre sono i macchinari e i metalli speciali per i programmi nucleari e missilistici: tecnologia dual-use, che può servire per le tradizionali centrali elettriche o per le centrifughe che arricchiscono l'uranio. Su questo fronte i controlli in Italia sono scarsi: pochi uomini, ancora meno mezzi, scarsa intelligence (vedi box a pagina 56). Tutto sembra affidato al caso. O alla lotta contro l'evasione fiscale e contro il riciclaggio: come 'L'espresso' è in grado di rivelare, l'ultima pista ha un'origine bancaria. Sui conti di una signora di un paesino alle porte di Udine sono cominciati ad arrivare bonifici da oltre 100 mila euro provenienti da Iran ed Emirati. Un'anomalia che ha fatto scattare le Fiamme Gialle di Udine: la donna lavora in una fabbrica, la Lup snc, che sforna componenti siderurgici d'alta qualità per clienti prestigiosi come Enel e Danieli. Le sue spiegazioni, poi, hanno solo aumentato i dubbi: "Ho fatto un piacere a un iraniano conosciuto a una fiera in Germania. Voleva investire in Italia e mi ha chiesto la cortesia di fargli mandare dei soldi sul mio conto". I finanzieri non le hanno creduto: è finita sotto inchiesta assieme ai tre soci-amministratori della Lup per violazione delle leggi antiriciclaggio. Spiega uno degli investigatori: "Sono flussi finanziari anomali, le operazioni sembrerebbero fatte in modo da oscurare chi c'è dietro". Ora gli inquirenti stanno cercando di risalire alle banche coinvolte nelle transazioni per decifrare la natura della ditta di Teheran con cui la Lup ha rapporti commerciali: è l'unica pista per capire che tipo di merci potrebbero essere state spedite. I container infatti hanno preso il volo da tempo: è praticamente impossibile stabilire se contenessero materiali proibiti o meno.
Più chiaro invece il quadro dell'indagine sul GFM Group di Bonate di Sopra (Bergamo): esperti nella produzione di metalli e componenti speciali per centrali elettriche che rifornisce anche l'Ansaldo. Nell'aprile scorso, i doganieri di Ponte Chiasso si sono insospettiti per un carico di massicci tubi lunghi oltre un metro, dalla forma irregolare: nei documenti erano indicati come 'carpenteria metallica'. La GFM li ha acquistati dalla Metal Wreck Engineering di Baar (Svizzera). Stranamente, però, qualche giorno prima nella stessa dogana era transitato un carico identico, che usciva dall'Italia per andare verso la Svizzera: a esportarlo era la Green Power Technology di Potenza e destinatario della merce era tal Global International Service. Quando le dogane cominciano i primi accertamenti, le perplessità aumentano: una delle società risulta inesistente, le altre sono legate da intrecci insoliti e soprattutto la merce non è banale carpenteria metallica. Tutt'altro. "È una superlega al 50 per cento nickel, 20 per cento cromo e altri materiali come cobalto e manganese", spiega la dottoressa Otello del laboratorio chimico delle dogane di Venezia, che l'ha analizzata. Resiste a temperature e pressioni altissime e a fluidi estremamente corrosivi: serve per le turbine delle centrali termoelettriche, ma anche nell'industria aerospaziale e in quella missilistica e nucleare. "Queste leghe rientrano nel regolamento sul materiale dual-use", precisa.
Un copione visto troppe volte. A dicembre 'L'espresso' ha rivelato la storia di una fabbrica di Modena, finita al centro di un giallo internazionale per tubi di metallo speciale venduti alla Turchia e intercettati alla frontiera iraniana. Anche in questo caso potevano servire per costruire missili o forse persino centrifughe per l'uranio. L'inchiesta penale è stata archiviata per l'impossibilità di provare la natura della mercanzia. Insomma: l'impunità è quasi garantita.
Anche le super-barche Levriero, esportate nel pieno rispetto delle leggi, avevano una doppia vita. Basta confrontare i siti web delle due aziende: in quello italiano (www.fbdesign.it) gli scafi sono disarmati; in quello del colosso bellico Dio, acronimo per Defense industries organization che li produce su licenza (www.diomil.ir), compaiono dotati di missili, mitragliere e, cosa più pericolosa, mine navali. I pasdaran hanno colmato i loro arsenali con 5 mila trappole esplosive marine. E qui la vicenda si fa paradossale: chi mette le mine e chi le deve disinnescare usa la stessa tecnologia italiana. Scafi in kevlar e motori Isotta Fraschini. Gli stessi dei dragamine comprati nel nostro Paese dalla Us Navy proprio dopo i danni subiti nel Golfo a causa degli ordigni iraniani. E gli stessi delle piccole motovedette lombarde con cui i pasdaran potrebbero seminare mine nei passaggi obbligati delle petroliere, mettendo in crisi l'economia mondiale. n
Un articolo sull'assenza, in Italia di norme contro chi viola le sanzioni all'Iran:
Sanzioni senza sanzioni. Non è un gioco di parole: l'Italia non ha ancora approvato norme specifiche per punire chi viola le sanzioni Onu contro l'Iran. "Ho passato una giornata a leggere i documenti ufficiali", racconta a 'L'espresso' un finanziere impegnato nell'indagine su un caso di export sospetto, "e non ho trovato una sola riga sulle penalità da applicare. Ricordo le sanzioni alla Serbia di Milosevic: allora le regole erano chiare e mi sono trovato a colpire imprenditori che esportavano pantofole in Serbia. Oggi l'Iran è sospettato di volere l'atomica, che tipo di strumenti abbiamo per colpire chi viola le regole?". Da Roma, le autorità competenti per l'embargo, ossia il ministeri degli Esteri, dell'Economia e del Commercio Internazionale, replicano: ci sono ben due decreti legislativi. Il guaio è che nessuno informa i controllori. Che faticano a garantire anche un minimo di sorveglianza. Solo nel 2006 l'Italia ha esportato in Iran macchine per impieghi speciali e apparati per la produzione di energia che valevano un miliardo di euro: quanti sono stati sottoposti ad accertamenti?
Il monitoraggio è affidato alla Divisione IV del ministero del Commercio Internazionale di Emma Bonino. Che ogni anno presenta una relazione in fotocopia al Parlamento: "Anche nel 2006 (come negli anni passati) non è stato possibile attivare per carenza di risorse quei controlli sia preventivi sia successivi espressamente demandati alla scrivente amministrazione". È infatti un organo che non ha mai ricevuto fondi, né strumenti per operare, con soli 12 funzionari e quattro tecnici: una minuscolo pattuglia che, se anche si occupasse solo di Iran, dovrebbe setacciare decine di migliaia di contratti. E il confronto con l'autorità tedesca sul dual-use, chiamata Bafa, offre un paragone desolante. "La Bafa può contare su 200 funzionari che lavorano nel controllo delle esportazioni", spiega la portavoce Willmann-Lemcke: "Ottanta sono i tecnici che valutano le richieste di esportazione e ciascuno esamina quelle nel proprio campo di specializzazione: nucleare o chimico". St. M.
E uno sulla violazione delle sanzioni da parte di aziende statunitensi:
Sarà anche l'azienda nel cuore della famiglia Bush, ma l'Iran piace alla Halliburton. Così la società, che ha avuto tra i suoi massimi dirigenti il vicepresidente Usa Dick Cheney, continua a fare affari a Teheran, in compagnia di una trentina di colossi statunitensi che riescono ad aggirare le sanzioni di Washington contro gli ayatollah. E mentre la Casa Bianca chiede una linea dura ai partner europei, Halliburton e le altre aumentano i loro fatturati. Della questione si è discusso durante un'audizione al Congresso dedicata a 'Halliburton e le relazioni d'affari americane con l'Iran': mentre l'assedio commerciale a Cuba e alla Nord Corea è molto rigido, quello per il Golfo Persico ha più di una falla. "La legge che impedisce alle aziende americane di fare affari con o nei paesi identificati come sponsor del terrorismo", ha confermato durante l'audizione al Congresso William C. Thompson Jr., "non si applica alle sussidiarie estere o offshore, purché non siano controllate da americani. Ma questo buco è stato sfruttato dalle aziende". E sì, perché la Halliburton, non potendo operare direttamente in Iran, lo ha fatto attraverso la 'Halliburton Products and Services, Ltd', con sede nelle isole Cayman, che nel febbraio 2000, durante la reggenza di Dick Cheney, ha aperto un ufficio a Teheran. Poi, quando nel 2005 è scoppiato il caso, Halliburton e le altre companies hanno preso le distanze, annunciando che avrebbero sospeso tutte le attività in Iran. "Una dichiarazione interessante", fa notare maliziosamente Victor Comras, che ha monitorato per l'Onu le sanzioni contro Al Qaeda, "perché queste multinazionali hanno sempre dichiarato di non esercitare alcun potere sulle sussidiarie estere". Comunque, almeno fino al 30 aprile del 2007, Halliburton operava ancora in Iran. St. M.
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