L'Iraq migliora, la crisi con la Turchia può essere disinnescata analisi sulla politica americana in Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 18 ottobre 2007 Pagina: 1 Autore: la redazione - Alan Patarga Titolo: «Il piano di Bush per disinnescare la trappola turca dei democratici - Anche i giornali liberal dicono che Petraeus sta vincendo in Iraq»
Dal FOGLIO del 18 ottobre 2007, un articolosui rapporti tra Stati Uniti e Turchia:
Ankara. La Turchia approva l’autorizzazione all’esercito a procedere militarmente nel nord dell’Iraq, ma il peggio si può ancora evitare. Ieri la Grande assemblea nazionale, la Türkiye Büyük Millet Meclisi, ha votato compatta. Su 526 presenti in aula ci sono stati solo 19 voti contrari, quelli dei parlamentari curdi. Hanno espresso il loro sostegno anche i deputati dell’Akp che definivano “un errore” il potenziale invio di truppe oltre confine. Adesso le forze armate sono autorizzate ad agire, ma i maggiori analisti locali credono che non ci saranno attacchi almeno prima della fine di novembre, per concedere al governo di Baghdad e anche agli Stati Uniti la possibilità di riequilibrare i rapporti. Combattendo le incursioni dei ribelli curdi i primi e bloccando l’iter della legge sul genocidio armeno i secondi. La votazione in Turchia si è svolta in un clima strano. Feroce dal punto di vista popolare; da quello diplomatico è frenetico. Da settimane i media turchi premono per un intervento. Le maggiori emittenti del paese continuano a trasmettere spot in cui si mostrano i funerali delle vittime dei terroristi, che in turco sono chiamate ?ehit, “martiri”. Volti noti dello spettacolo e dello sport patrocinano iniziative a favore delle famiglie dei soldati uccisi. I lavoratori della base di Incirlik, massimo appoggio logistico sul suolo turco per le truppe americane impegnate in Iraq, hanno dichiarato alla Cnn turca che sarebbero disposti a perdere il lavoro pur di vedere la base chiusa ai mezzi statunitensi. In questi giorni, all’aeroporto di Ankara il traffico è importante. Due giorni fa sono arrivati, a distanza di poche ore, il vicepresidente iracheno Tarik Ha?imi e il presidente siriano Bashar al Assad. Gli scopi erano diversi: il primo doveva cercare di convincere l’esecutivo islamico-moderato turco a non agire militarmente contro il nord dell’Iraq, il secondo per tessere nuovi rapporti commerciali e politici con il potente vicino. E diverse sono anche le posizioni sulla questione irachena. Ha?imi, ieri mattina, ha lasciato il paese della Mezzaluna confortato, dicendo di aver ottenuto quello che aveva chiesto, ossia un’ultima chance di tempo per evitare l’attacco armato e risolvere il problema dei guerriglieri del Pkk che trovano rifugio in nord Iraq, nel territorio di Massoud Barzani, in altro modo. Bashar al Assad invece, ha dichiarato a sorpresa che la Turchia è pienamente legittimata a oltrepassare il confine. Anche il leader siriano sfrutta così la questione della legge sul genocidio votata la settimana scorsa da una commissione del Congresso americano per ingraziarsi un alleato potente, in vista della conferenza dei paesi vicini all’Iraq in programma a Istanbul per il mese prossimo. E’ un calcolo politico che desta non poche preoccupazioni se si considera la vicinanza fra Ankara e Teheran degli ultimi mesi e farebbe apparire ancora di più un eventuale voto americano un errore che porterà la Turchia verso il mondo arabo.
Erdogan volerà a Washington Ieri il presidente americano, George W. Bush, ha cercato di rimediare, in attesa di incontrare il premier turco Recep Tayyip Erdogan, che volerà a Washington probabilmente a novembre. Durante la conferenza stampa di ieri il capo della Casa Bianca ha chiesto direttamente alla Turchia di non intervenire in Iraq, dove non potrebbe che aggiungere un pericoloso elemento di destabilizzazione proprio in una fase in cui, invece, il piano antiguerriglia del comandante David H. Petraeus sta dando ottimi risultati. E alla maggioranza democratica al Congresso il presidente ha chiesto proprio di non mettere a repentaglio la missione in Iraq votando via la mozione per “cercare di mettere ordine nella storia dell’Impero ottomano” e ha fatto appello perché l’iter della mozione sia interrotto per “non inimicarsi un alleato fondamentale e democratico nel mondo musulmano”. Quasi nelle stesse ore, a Roma, un disteso e loquace generale Yasar Buyukanit, capo di stato maggiore delle Forze armate turche, si è intrattenuto a lungo con alcuni giornalisti turchi in una sala della sede diplomatica della capitale. Ha tracciato il quadro della situazione. Ha detto che governo ed esercito sulla questione irachena agiscono compatti e che l’attacco, se ci sarà, avverrà “al momento opportuno”: il che lascia supporre non in tempi brevi. L’alto ufficiale è stato durissimo sulla mossa dei democratici, ricordando la sua visita americana a febbraio e le rassicurazioni ricevute da deputati al Congresso che poi invece hanno sostenuto la mozione sul genocidio. “Spero che le relazioni possano continuare bene – ha detto Buyukanit – ma se la legge sarà approvata allora i rapporti con l’esercito turco ne usciranno danneggiati”.
Sempre dal FOGLIO , un articolo di Alan Patarga sui progressi in Iraq:
"Missione compiuta”, titola un lungo reportage del magazine britannico Prospect, e l’articolo non è dedicato al Nobel per la pace di Al Gore, ma alla campagna americana in Iraq. Per la rivista inglese, la questione morale non si pone nemmeno. “Secondo ogni standard etico – scrive Bartle Bull, autore dell’analisi – l’attuale progetto della coalizione in Iraq è di quelli giusti. La Gran Bretagna, l’America e gli altri alleati dell’Iraq sono lì come ospiti di un governo indicato con un forte mandato dagli elettori iracheni secondo i dettami di una Costituzione legittima. Le Nazioni Unite hanno approvato il ruolo della coalizione nel maggio del 2003 e da allora lo hanno rinnovato ogni anno, l’ultima volta lo scorso agosto. Allo stesso tempo, chi era o è nel campo avverso di questa guerra è annoverabile tra i peggiori personaggi della politica globale: i baathisti, ossia i nazisti del medio oriente; i fondamentalisti sunniti, ossia i principali oppositori del progresso nella lotta tutta islamica alla modernità; il governo dell’Iran”. L’analista di Prospect spiega con realismo che anche un intervento in Ruanda sarebbe stato giusto, ma che nello sventurato paese africano non c’erano ingenti riserve petrolifere. “L’Iraq non è il Ruanda – scrive – ma due o tre bombe al giorno non fanno nemmeno un Vietnam”. E che non è un Vietnam, l’Iraq di oggi, lo dimostrano i fatti: “A tre anni e mezzo dall’inizio della guerriglia – racconta Bull – la maggior parte delle grandi domande irachene ha avuto una risposta tendenzialmente positiva. Il paese è unito. E’ andato alle elezioni. Ha dato vita a una Costituzione equa e popolare. Ha evitato la guerra civile. Non è caduto in mano all’Iran. Ha messo fine al genocidio curdo e all’apartheid per gli sciiti. Ha scongiurato la vendetta di massa contro i sunniti”. Insomma, “la missione in Iraq può dirsi più o meno compiuta, seppure sia stata imperfetta e costosa”. La violenza esiste ancora, sebbene in calo, “ma è soprattutto circoscritta a livello locale e di stampo criminale. Il fatto più importante dell’Iraq di oggi è che la violenza, per quanto tragica, ha smesso di avere una matrice politica e non è più importante com’era in precedenza”. Bull racconta di come le violenze sunnite siano in larga parte cessate: i baathisti trattano “per entrare nella tenda con americani e sciiti”, le tribù della provincia di Anbar si sono alleate con le truppe della coalizione “e pacificare il cuore della guerriglia sunnita era considerato un obiettivo irraggiungibile non più tardi della scorsa primavera”. Soltanto i fondamentalisti wahhabiti, per lo più stranieri, “continuano a passare il confine per farsi saltare in aria in cerca delle 72 vergini del paradiso”. Nemmeno la guerra civile di cui tanto si parla c’è mai stata: “Nessuna linea del fronte, nessuna secessione, nessun tentativo di conquista del potere o di imporre cambi costituzionali, nessun governo parallelo, nemmeno un leader disposto ad andare in pubblico (…). La dimostrazione più eclatante l’ha data il tentativo, l’estate scorsa, dell’ufficio del premier al Maliki di richiamare in servizio gli ex soldati e ufficiali dell’epoca baathista: hanno risposto in 48.600. Maliki ne ha presi cinquemila, ha dato lavoro nella pubblica amministrazione ad altri settemila e agli altri ha concesso la pensione”. E il cessate il fuoco proclamato lo scorso agosto dall’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr “in realtà era in vigore dal 2004”, dopo la battaglia di Najaf. La voce di Prospect (che si aggiunge a quelle del New York Times e del Washington Post dell’estate scorsa, e soprattutto ai dati portati al Congresso a metà settembre dal generale David Petraeus e dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker) non è isolata, in questi giorni. Proprio ieri, anche l’ultraliberal Los Angeles Times, in una corrispondenza da Baghdad firmata da Christian Berthelsen, ha riconosciuto come alle minacce dei qaidisti d’Iraq sulle stragi durante il mese di Ramadan non siano seguiti i fatti. “Il numero di attacchi durante le quattro settimane del mese sacro – si legge nel resoconto – è stato di gran lunga inferiore a quello dell’anno scorso”. I colpi ci sono stati, e uno anche importante: “L’uccisione dello sceicco Abdul Sattar Abu Risha, alleato chiave degli americani contro al Qaida nella provincia di al Anbar. Oppure le 25 vittime di un’autobomba a un vertice per la riconciliazione tra sunniti e sciiti a Diyala, lo scorso 24 settembre. Ma nel complesso le violenze sono diminuite del 40 per cento rispetto al Ramadan del 2006 e le vittime americane si sono dimezzate a quota 49, un minimo storico se accostato alle 98 dell’anno scorso, alle 93 di quello precedente, alle 104 del 2004 e alle 88 del 2003”. Il proclama dello Stato islamico d’Iraq, uno dei gruppi più attivi della guerriglia sunnita, è stato smentito dai fatti. E non è soltanto in negativo (dal minor numero di vittime militari e civili) che si può registrare il successo del “surge” dei generali Petraeus e Odierno. Nelle ultime settimane sono stati parecchi, in Iraq e non soltanto, i sospetti terroristi catturati dagli americani e dai loro alleati. L’ultimo è stato Jamal Badawi, leader qaidista yemenita, fermato dalla polizia del suo paese pochi giorni fa e considerato responsabile, nel 2000, dell’attacco alla nave USS Cole nel porto di Aden. Persino il settimanale tedesco Spiegel, che aveva brillato per pacifismo, ha parlato recentemente di un Iraq pacificato e di un’America vittoriosa. Anzi, le parole dell’inviato Ullrich Fichtner sono quelle che, meglio di qualunque altra, illustrano la situazione: “Da giugno, la gente di Ramadi ha visto la guerra soltanto in tv. E i comandanti americani dell’Operazione Iraqi Freedom, a Baghdad, non credevano ai loro occhi, leggendo i rapporti redatti dalle unità locali. Autobomba esplose: zero. Mine scoppiate: zero. Razzi sparati: zero. Granate lanciate: zero. Colpi d’arma da fuoco: zero. Depositi di armi scoperti: decine. Terroristi arrestati: tanti”.
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