L’amore mio non può – Lia Levi
Danni collaterali. Questa definizione un po’ cinica e ipocrita del nostro tempo potrebbe essere usata almeno per le prime mosse del nuovo romanzo di Lia Levi, che ne “L’amore mio non può” esordisce appunto con uno dei “danni collaterali” delle leggi razziali italiane del 1938: un suicidio. E’ lo spettacolare suicidio del marito di Elisa, la protagonista. Andrea, il marito, non regge all’umiliazione di essere cacciato, perché ebreo, dalla banca in cui lavorava, e finisce per gettarsi dall’alto del Muro Torto a Roma, con un gesto di estremo dolore e forse di estrema quanto vana protesta pubblica. La giovane vedova non sembra perdonargli questa “fuga”. Rimasta sola con una bambina, deve far fronte ai problemi quotidiani, diventati di colpo gravissimi. Parte da qui la battaglia del “giorno per giorno” di Elisa, giovane donna della piccola borghesia ebraica romana, munita solo di un inutile diploma di maestra. La ricerca di un lavoro qualsiasi diventa ossessiva. Non basta l’aiuto, per il poco che possono, dei parenti e delle organizzazioni ebraiche, già sommerse e travolte dall’afflusso dei profughi dall’Austria e dalla Germania naziste. Sopravvivere prima ancora di vivere. Questo l’obiettivo che si pone Elisa, che passa da un lavoro provvisorio a un altro, ancor più provvisorio, per fare scudo alla sua bambina. Sembra a un certo momento che trovi un approdo lavorativo, sempre clandestino ma sicuro. Anche questa però sarà solo una sosta provvisoria e drammatica. La giovane viene violentata dal suo datore di lavoro e deve ancora fuggire. In qualche modo, per ritagliarle qualche momento di oblio, le è compagno il volto di un’attrice di cinema, Alida Valli (che un po’ le assomiglia), di cui non perde un film: è il suo solo lusso, la sua sola debolezza. La storia di Elisa attraverso gli anni della persecuzione è contrappuntata dalla canzone triste di un film della Valli che la protagonista si scopre spesso a canticchiare “Ma l’amore no, l’amore mio non può….” Da cui il titolo del libro. 1939, 1940, 1941…. Il comitato ebraico di assistenza le fa, con qualche imbarazzo, una proposta. C’è una ricca famiglia ebrea, ormai priva di domestici “ariani” che per legge non può tenere, che avrebbe bisogno dell’aiuto casalingo di un’ebrea. Non sarà però quello che Elisa immaginava, una specie di dama di compagnia, ma un lavoro di domestica (proprio di “serva” dirà Elisa). Nella principesca dimora dei coniugi Anguillara, nell’ala della servitù, c’è una camera per Elisa e per la sua bambina: alloggio e vitto sono comunque assicurati. La “principesca” signora matura una sorta di astio per Elisa, forse perché non riesce bene a inquadrarla e ciò che non si capisce mette a disagio e provoca reazioni aggressive. Così la”padrona” pare divertirsi a umiliarla. 1942, 1943…. Ci si abitua a tutto, si finisce per accettare tutto, quando si persegue uno scopo, che per Elisa è quello di far crescere la figlia come avrebbe voluto il marito, a cui la giovane vedova ora pensa in modo un po’ diverso, senza più acredine.Forse lui era adatto a un’altra epoca, a un’altra società, a una specie di “isola che non c’è”. Un fragile poeta che in tempi ormai lontani la riempiva di fiori dell’anima. E’ il 16 ottobre del 1943. Casa Aguillara non viene risparmiata. I due coniugi subiscono la sorte di tutti gli ebrei trovati quel giorno nelle loro case dalle SS tedesche. Elisa però si salva. La sua “divisa” da cameriera, il modo sprezzante che la signora Anguillara usa quando l’SS le chiede se anche la giovane è della famiglia (“Ma no, non vedete che è la serva?”), le hanno risparmiato la vita. Elisa raggiungerà la sua bambina, ma tanti altri, compresi i suoi migliori e forse unici amici ebrei romani, non saranno altrettanto fortunati. Il romanzo si chiude qui, con un interrogativo non espresso e a cui l’autrice non dà risposta. La”padrona” ha voluto di proposito salvare Elisa, oppure fino all’ultimo prevale la “lotta di classe”?. Non è il solo interrogativo. Lia Levi ne propone molti, nella ingannevole semplicità della sua scrittura e nel suo sorvegliare sempre la scrittura stessa attraverso un costante filo di rassegnato humour ma anche di autentico sorridere, come accade nella vita, dove tutto si mescola e si confonde. Perché in realtà di chiavi di lettura ne propone molte. A una prima lettura la storia è quella che si racconta sommessamente, cioè una delle storie del 16 ottobre, giorno della grande deportazione degli ebrei romani. Ce n’è poi una seconda, quasi nascosta tra le pieghe del libro. E’ una cauta considerazione su vita e destino, sulle straordinarie, impreviste e imprevedibili conseguenze di gesti e azioni che diventano coincidenze (o cos’altro?): Infine una terza lettura il libro trascende dalla vicenda in sé, va al di là e al di sopra dei protagonisti. E’ come se la scrittrice volesse condurti per mano, e quasi senza apparente intenzione, nei labirinti dell’esistenza umana, portando la tragedia ebraica a paradigma assoluto del caso, del dolore, degli abissi insondabili delle anime, insomma, dell’avventura umana.
Annie Sacerdoti Bollettino della Comunità Ebraica di Milano "