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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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La Repubblica Rassegna Stampa
17.10.2007 Per i libanesi antisiriani sarebbe davvero saggio un accordo con Hezbollah ?
Guido Rampoldi evita di chiederselo

Testata: La Repubblica
Data: 17 ottobre 2007
Pagina: 33
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: «Beirut La fuga dei cristiani»

La REPUBBLICA del 17 ottobre 2007 pubblica un reportage sul Libano di Guido Rampoldi.
Incentrato sui conflitti etnici e religiosi e sul rischio di una nuova guerra civile, l'articolo presenta Hezbollah come una milizia tra le altre, espressione della comunità sciita e sua garanzia di sicurezza.
Definisce "saggio" il tentativo del clero maronita di riavvicinare i cristiani "filo-sunniti" (schierati con il governo libanese antisiriano) e quelli filo-sciiti (schierati con il generale filo-siriano Michel Aoun) e in seguito la maggioranza indipendentista con Hezbollah.

In realtà, Hezbollah persegue interessi e scopi che nulla hanno a che vedere con quelli del Libano.
Vuole la distruzione di Israele, l'egemonia iraniana in Medio Oriente, l'esportazione della rivoluzione khomeinista,  la rivincita sciita nell'islam.

Il prezzo di un' "unità libanese" che includa Hezbollah sarebbe l'ingresso del paese a pieno titolo nell'orbita di Teheran e uno stato di permanente ostilità, spesso di guerra aperta, verso  Israele.

Rampoldi avrebbe dovuto ricordarlo.

Ecco il testo:


In Libano la storia non ha ancora deciso dove andrà abitare, se nelle case vuote dei milionari sauditi o nelle case vuote dei cristiani che emigrano. I sauditi hanno comprato per prezzi irragionevoli interi condomini sulla Corniche, il lungomare, ma vi compaiono di rado. Nelle sere di festa quei palazzi alti e per gran parte bui tollerano con impassibile eleganza la piccola borghesia beirutina che schiamazza ai loro piedi, dopo aver occupato il largo marciapiede con le sedie di plastica portate da casa, i tavolini e le grandi pipe ad acqua. Lo scorso venerdì, quando crocchi esilarati di padri e di bambini hanno preso ad innescare petardi e fuochi d´artificio, la Corniche rimbombava e crepitava come al tempo della guerra civile. Ma chi ora legge in quel frastuono un presagio può tentare di rassicurarsi alzando gli occhi sui palazzi vuoti. Come spiega Timur Goksel, politologo dell´American university, «i sauditi hanno fatto investimenti enormi in Libano. Beirut è la loro via di fuga nel caso che nella penisola arabica tutto volga al peggio: non lasceranno che bruci. E poiché anche l´altro prim´attore della scena libanese, l´Iran, non ha interesse in una deflagrazione, il Libano potrà conoscere scontri, turbolenze, nuovi attentati: ma non una nuova guerra civile».
Non subito, almeno. Gli appartamenti vuoti dei cristiani fuggiti all´estero nelle ultime settimane raccontano il Paese da una prospettiva più pessimistica. Che precipiti o no in un´altra mischia tra fazioni armate, il Libano comincia a somigliare non più ad una democrazia inceppata, ma ad uno Stato fallito. Ad una Somalia a cinque stelle, nella definizione di un giornalista libanese: e anche le stelle diminuiscono rapidamente, mano a mano che l´economia decade Secondo i sondaggi, il 63% degli universitari vede all´orizzonte la guerra civile e due terzi dei giovani tra i 18 e i 25 anni vogliono emigrare. Per adesso partono i cristiani della borghesia agiata, perché hanno una professione, spesso un secondo passaporto e soprattutto parenti all´estero. Ma partono anche i musulmani, e con l´identica motivazione: l´insicurezza, lo stato dell´economia, la delusione. Il Libano in cui abbiamo creduto, ammettono tutti, non esiste più. Forse non è mai esistito. In fondo, spiega Goksel, quel senso di unità nazionale suscitato due anni fa dalla cosiddetta "Rivoluzione dei cedri" è durato solo pochi mesi. Ne rimane qualcosa tra i libanesi che avendo un´istruzione e nessun bisogno di appoggiarsi ad una comunità non badano troppo alle differenze di religione. Ma questo è appunto il Libano che emigra. Fuori da quel segmento di borghesia, il Paese torna a dividersi lungo le linee in parte dettate dalle 18 fedi riconosciute dalla Costituzione, e in parte maggiore dalla fedeltà pretesa da questo o quel clan in cambio di assistenza sociale, sovente un lavoro, e adesso soprattutto la garanzia di una protezione se tutto precipitasse.
La progressione degli eventi va in quella direzione. L´anno in corso ha visto furiose sparatorie all´università (in gennaio, quattro morti), una battaglia durata mesi tra l´esercito e una grossa banda terrorista asserragliata in un campo palestinese (almeno quattrocento uccisi), e altri attentati misteriosi, in genere attribuiti a invisibili mani siriane ma rimasti tutti impuniti. «Ogni giorno che passa tutto è più difficile», ha detto domenica il patriarca maronita Nasrallah Sfeir dando voce alle ansie dei fedeli. E li ha invitati a pregare, perché «Dio soltanto è capace di salvare questo Paese e le nostre famiglie». In realtà anche i libanesi potrebbero dare una mano, se riuscissero a salvarsi da se stessi. Invece. La settimana scorsa la stampa ha raccontato di ragazzi che si allenano a sparare (in montagna, come accadeva nel 1973). Sono soprattutto i cristiani di due fazioni opposte, l´una alleata e l´altra nemica degli Hezbollah. E´ opinione prevalente che se si cominciasse a combattere, sarebbe uno scontro tra le due milizie ad aprire le ostilità.
La moltiplicazione dei gruppi armati è una prospettiva ancora lontana, ma ormai nell´orizzonte libanese. «Le milizie chiamano inevitabilmente, irresistibilmente, altre milizie», avverte l´Orient, quotidiano vicino al governo sunnita-maronita. La colpa è innanzitutto di Hezbollah. Rifiutando di disarmare il suo poderoso apparato militare, il partito sciita di fatto ha incoraggiato altre fazioni a riarmarsi. Ma adesso è difficile negare il diritto alla paura anche agli sciiti, che ormai considerano i guerrieri di Hezbollah la loro unica protezione anche quando non ne condividono il fondamentalismo.
La paura libanese è ancora un sentimento così sommesso che sarebbe più esatto definirla un´inquietudine. Parlarne in pubblico risulta iettatorio, imbarazzante, maleducato. Ma nessuno ignora i segnali di deterioramento. «Ora accade che condominii omogenei concordino di non vendere nè affittare a famiglie di religione diversa», racconta una sciita con le valigie pronte. «E´ ancora raro, ma prima non succedeva». Chi ha memoria della guerra civile sa bene dove conduce questo progressivo chiudersi dentro i confini della propria comunità. Ma i più giovani non hanno un´idea esatta delle mostruosità occorse durante tra il 1975 e il 1990. La guerra civile, infatti, è un taboo nazionale. Il Libano si è obbligato a dimenticarla. E così ha finito per commettere lo stesso errore che è stato fatale alla federazione jugoslava: non ha mai fatto i conti con le proprie colpe. Il risultato è disastroso. I clan che condussero il Paese alla rovina sono ancora potenti e rispettati, malgrado conservino la vocazione al ladrocinio e un´inesausta disponibilità a cercarsi protettori esteri. Perfino personaggi di comprovata ferocia, come il maronita Samir Geagea, sono ancora attivi nella politica (e la sua milizia si sta riarmando). Se i crimini più gravi non subiscono neppure una sanzione simbolica, viene a cadere la norma morale che trasforma un agglomerato casuale in una società.
Non è una faccenda astratta, e non riguarda solo i libanesi. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che Hezbollah è ricorso spesso al terrorismo. Ma quando l´ambasciatore statunitense Feltman ha preso di petto un emissario del generale Aoun, capo della fazione maronita alleata di Hezbollah, quello ha potuto rispondere: saremmo noi gli amici dei terroristi? E voi? Davvero ignorate il passato di quelli che ricevete a Washington, come il druso Jumblatt, o di quelli con cui trescate a Beirut, come i clan della Falange? Il fatto che una metà dei cristiani maroniti siano alleati di Hezbollah potrà apparire incomprensibile agli occidentali che guardano al Libano come un campo di battaglia tra il Bene e il Male, tra la Nostra civiltà e l´Orda. Ma nella logica libanese non è affatto sorprendente. Molti maroniti sono devoti al generale Aoun, e per ragioni tattiche l´ex presidente ha scelto di apparentarsi con il partito della guerriglia khomeinista. Tra i due gruppi non vi sono molte affinità, se non un certo disprezzo, ricambiato, per la borghesia beirutina (in un suo libro recente Aoun legge lo scontro tra maggioranza cristiano-sunnita e opposizione cristiano-sciita come «lotta di classe»). Però i maroniti che vivono nel sud, dove gli sciiti sono maggioranza, preferiscono mantenere rapporti distesi con Hezbollah.
Ma se nella scelta di appoggiare Hezbollah prevalgono le convenienze e la fedeltà ad Aoun, sullo sfondo emerge una questione strategica: l´avvenire della più grande comunità cristiana in Medio Oriente. Come evitare d´essere sommersi dal grande mare islamico. Come salvarsi, se il Libano precipitasse nel caos.
Anche se l´ultimo censimento risale al 1930 e l´anagrafe è affidata ai cleri, nessuno dubita che da tempo i cristiani non siano più la maggioranza. Inoltre hanno perso il controllo dell´economia, da quando l´ingresso in Libano di enormi capitali sauditi ha spostato gli equilibri di potere a vantaggio dei sunniti e dei loro campioni, la famiglia Hariri. Tutto questo ha acuito la frattura nel campo maronita, ferocemente diviso già durante la guerra civile. Alcuni ritengono che l´alleato naturale siano i sunniti di Hariri, moderati, amici degli americani e dei sauditi. Invece i maroniti che oggi spalleggiano Hezbollah sospettano proprio i sunniti di una cospirazione anti-cristiana: il governo di Rafik Hariri, accusano, avrebbero nazionalizzato di soppiatto duecentomila palestinesi, quasi tutti sunniti, e bloccato le richieste di nazionalità presentate da libanesi emigrati all´estero, in gran parte cristiani.
Nel campo dei filo-sunniti la possibilità di una guerra civile rimette in gioco ipotesi estreme. Una fazione maronita non ha mai rinunciato al progetto di ritagliarsi un micro-Stato cristiano. Come ricorda Lyna Elias in un saggio appena pubblicato a Beirut (I cristiani del Libano minacciati di sparizione), in passato fu la netta opposizione di Giovanni Paolo II a bloccare quella soluzione come immorale e suicida. Ma si continuerebbe a discuterne «a tutti i livelli, anche nella Chiesa (maronita)». Più saggio di alcuni suoi preti, il patriarca invece sta cercando di mediare tra le due fazioni maronite, e attraverso quelle tra Hezbollah e il governo, per arrangiare un compromesso che permetta al parlamento di eleggere il futuro presidente prima che quello in carica scada (24 novembre). Come infatti è evidente, se in Libano o nell´intero Medio Oriente cominciasse lo scontro tra sciiti e sunniti, tra l´Arabia e la Persia, i cristiani sarebbero ovunque presi nel mezzo e travolti.
Eppure anche un compromesso sul nome del capo dello Stato non metterebbe il Libano al sicuro né dai suoi nemici esterni né dai libanesi. Questi ultimi restano fatalisticamente prigionieri di un sistema che potremmo chiamare una democrazia ottomana. L´ordinamento protegge le diversità ma le definisce secondo la religione. E le inquadra in una gerarchia (al primo posto i cristiano-maroniti, seguiti dai sunniti). Questo regime ha anche aspetti positivi. In un Paese grande come l´Abruzzo puoi trovare almeno una traccia di tutti gli stili di vita che intercorrono nello spazio compreso tra Parigi e Teheran. «Ciascuno può scegliere il suo Libano», mi dice uno che ha giurato di non emigrare, il medico maronita Naji Hayek. Ma a fronte di questa complessità manca un Libano che riassuma tutti gli altri. L´idea di una patria comune, di un interesse generale, non ha mai attecchito nella coscienza collettiva. E le regole del potere incentivano la frammentazione. Secondo una prassi universalmente accettata l´intero vertice della nazione e dell´amministrazione statale è spartito tra cristiani, sunniti, sciiti e drusi secondo precise quote. Perfino il codice civile si piega alle regole delle identità religiose. L´ordinamento prevede 18 tipi di diritto matrimoniale, uno per ciascuna fede, con il risultato bizzarro che i musulmani possono divorziare ma i cristiani maroniti no. L´anno scorso un minuscolo movimento laico ha chiesto l´introduzione del matrimonio civile, ma è stato zittito dai cleri di tutte le fedi, nell´occasione alleati. Di recente il patriarca della Chiesa maronita ha tenuto un sermone appassionato sui mali che derivano dai matrimoni misti. In altre parole la Chiesa da una parte biasima le unioni "multiculturali" e dall´altra difende un sistema rigidamente "multiculturale" che nelle parole di uno studio recente «è la prima causa della fragilità del Libano». Però i vescovi, come in genere i mullah, svolgono una funzione moderatrice, spesso si fanno visita, talvolta instaurano lodevoli rapporti di collaborazione. Come non hanno merito se dalla guerra dell´Iraq i loro templi sono affollati quanto mai prima, così non hanno colpa se alcuni tra i loro fedeli hanno ricominciato a giocherellare con il mitra. Quel che accade ovunque quando le ragioni forti che muovono la storia si nascondono dietro i paramenti sacri.

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