Shoah di Claude Lanzmann è un film che viene comunemente definito un monumento. All’autore questa parola non piace molto, per quel tanto di polveroso che contiene, ma in realtà si attanaglia perfettamente a questa opera di oltre nove ore, costruita incrociando le testimonianze dei sopravvissuti dei campi di sterminio e anche dei loro aguzzini. Ci sono voluti 12 anni per realizzarlo, cinque dei quali dedicati al solo montaggio. Il film è uscito nell’85, ma oggi Einaudi lo ripropone in cofanetto che contiene 4 dvd e un libro che raccoglie i dialoghi del film, le testimonianze dei protagonisti. Del resto, quando Lanzmann ha cominciato a lavorare a questo progetto, l’ha fatto con il preciso intento di produrre un’opera duratura nel tempo. «Ho girato Shoah con l’idea di farne una fonte inarrestabile, che non possa esaurirsi », spiega. «Il film si apre con una didascalia che avverte: questa storia inizia nei nostri giorni. Era una frase valida nell’85, e lo è ancora oggi». La scelta del regista è stata quella di raccogliere testimonianze che raccontassero il passaggio dalla vita alla morte dei milioni di persone uccisi nei campi. Per questo nel film non ci sono le immagini classiche, a cui ci hanno abituato i documentari, che in genere illustrano quello che fu trovato quando i campi vennero chiusi. Non c’erano telecamere negli spazi che precedevano la camera a gas; non c’erano dentro le camere; non c’erano dopo, quando i cadaveri venivano rapidamente fatti sparire nei forni. Ed era questo che Lanzmann voleva che fosse raccontato. «Tutto è stato molto difficile, ma forse le difficoltà più grosse le ho incontrate quando ho cercato di coinvolgere i tedeschi, gli aguzzini dei campi di concentramento», spie- ga. «È stato difficilissimo ritrovarli. Naturalmente avevo cercato di documentarmi, e mi ero fatto una lista di 200 nomi. Ma la prima volta che mi sono recato in Germania ero molto emozionato, e non sapevo bene come muovermi. D’altra parte ritenevo fondamentale mostrare i volti degli assassini. Allora mi sono rivolto ad un’organizzazione nata proprio per rintracciare gli ex nazisti. Mi hanno dato degli indirizzi, ma erano molto vecchi: risalivano ai cosiddetti 'processi ulteriori', quelli celebrati dopo Norimberga, nel ’48’49. La gente si era trasferita, magari da vent’anni. Era quindi complicato organizzare il lavoro, dovevo spostarmi continuamente da una città all’altra - anche perché, se provavo a scrivere, non ricevevo risposta - e questo era tra l’altro costoso. Per il primo contatto telefonavo, ma riattaccavano sempre, loro personalmente o le mogli. Molti, comunque, hanno rifiutato di parlare: ogni nazista che parla nel film è quasi un miracolo, spesso frutto di sotterfugi e trucchi che mi hanno fatto correre anche qualche pericolo». Man mano che gli anni passano, i sopravvissuti dei campi di sterminio sono sempre meno. Tanto più, dunque, acquista valore questa opera, che ha avuto tra l’altro il merito di dimostrare quanto la testimonianza orale fosse importante per raccontare quello che i documenti non dicono. E che è un efficace mezzo di comunicazione con le giovani generazioni. Per questo, spiega Lanzmann, «in Francia il Ministero per l’educazione ha selezionato sei brani del film e li ha distribuiti nei licei. Gli insegnanti mi invitano a parlare, e io vado spesso nei licei delle banlieues, dove la popolazione è in maggioranza magrebina. Ci sono allievi che vengono pugnalati da questo film, così diverso da quello che si legge nei libri di storia». «Gli studenti magrebini sono scossi dal mio film che raccoglie le testimonianze dettagliate sullo sterminio degli ebrei»