A l termine della lettura del nuovo romanzo di Littell, «Le Benevole», è inevitabile soffermarsi su alcune riflessioni che riguardano il peso della storia della Shoah all'interno del racconto. Ed è forse su questo aspetto, più che sul piano letterario (di indiscusso valore, come ha suggerito Alessandro Piperno nel suo articolo del 13 ottobre) che il lavoro di Littell pone dei seri problemi di interpretazione e di ricostruzione dei fatti, anche tenendo conto dell'ottica particolare da cui si muove la narrazione: il punto di vista di un ufficiale delle SS, Maximilien Aue. Nonostante le molte letture (di storici e testimoni e l'attenta visione del film di Lanzmann, «Shoah» — a giorni in libreria per i tipi dell'Einaudi), Littell non coglie appieno il processo di decisione che porta i nazisti allo sterminio degli ebrei. Contrariamente a quel che fa dire a uno dei suoi personaggi, non ci fu un solo ordine di sterminio (che fra l'altro l'autore per errore — o per scherno? — chiama con termine tedesco Führervernichtungbefehl, vale a dire ordine di sterminare il Führer!) ma una serie di decisioni successive che hanno prodotto una radicalizzazione delle azioni di massacro tra la metà del luglio e la metà del novembre del 1941. E né Hitler né Himmler avevano certo bisogno di un'eminenza grigia, come il personaggio di Mandelbrod, per avviare in modo organizzato la Shoah. Se accettiamo l'idea che «Le Benevole» non sia un romanzo storico, come molti critici e storici hanno voluto sottolineare, è pur vero che la storia della seconda guerra mondiale e degli eccidi del nazismo è parte centrale del suo tessuto narrativo. E ciò che più colpisce è proprio l'immagine dell'uomo carnefice che ne esce: la pur «sghemba» adesione al Male (l'espressione è di Piperno) di Max Aue, fa di lui un uomo perverso, incapace di relazioni non eccessive, non violente, in un certo senso maledetto (o se si vuole portato al male come sorta di religione di vita). Ma così non erano i carnefici del nazismo: persino ad Auschwitz, industria dello sterminio di massa, i sadici come il Rapportführer Gerhard Palitzsch venivano allontanati dal campo e dal lavoro di sterminio. Coloro che comandavano le operazioni mobili di massacro, così come quelli che guidavano ed eseguivano le gasazioni nei campi di sterminio (spesso borghesi e intellettuali, a volte anche religiosi) erano in realtà uomini assai comuni, che vivevano con la famiglia e i bambini a poca distanza dai luoghi dei massacri. Mentre il personaggio di Max Aue può far credere che i nazisti altro non erano che pazzi perversi, in cerca di godimento nel vedere il male e il dolore stagliarsi sulla faccia e nei corpi delle vittime. E le descrizioni spesso sadico-voyeuristiche di Littell non fanno altro che accreditare questa lettura. Anche coloro che chiedevano esplicitamente di fare parte delle squadre addette ai massacri (su questo ambito oggi si dispone di una enorme documentazione) a fine giornata dovevano ricorrere all'alcol o a farmaci calmanti, quando non chiedevano di essere esentati dal compito. Così la semplicità con cui Max osserva e partecipa al genocidio si pone come una sorta di banalizzazione del nazismo e della sua ideologia distruttiva. Se così fosse, «Le Benevole», pur nel novero delle opere letterarie, sarebbe più vicino a quei lavori che hanno cercato di raccontare il nazismo e la Shoah, riducendone la portata e la gravità, ma soprattutto cancellando dalla storia la responsabilità dell'uomo comune e con essa quel senso di vergogna che coglie l'uomo quando prende coscienza che tutto ciò è accaduto. Jonathan Littell, l'autore del romanzo «Le Benevole» edito in Italia da Einaudi (Ap Photo / Gallimard)
Frediano Sessi dal Corriere della Sera del 16 ottobre 2007