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La Stampa Rassegna Stampa
16.10.2007 Qualcuno a Hollywood sa ancora distinguere tra buoni e cattivi
il successo di "Kingdom", sulla guerra contro Al Qaeda

Testata: La Stampa
Data: 16 ottobre 2007
Pagina: 11
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Un pugno di cowboy contro i sauditi ed'è boom d'incassi»
Da La STAMPA del 16 ottobre 2007:

Applausi in sala, grida da cowboy e pubblico inchiodato alle sedie. Il merito è di «Kingdom» il film che racconta la storia di quattro agenti dell’Fbi che sbarcano in Arabia Saudita, infrangono le relazioni privilegiate fra Washington e Riad, danno la caccia ad una cellula di spietati terroristi e riescono ad eliminare Abu Hamza, capo delle cellule di Al Qaeda.
Il film d’azione è premiato dagli incassi e scatena le emozioni del pubblico perché racconta la guerra al terrorismo come una lotta su più fronti fra il Bene e il Male. A rappresentare il Bene è il team dell’Fbi guidato dall’agente Ronald Fleury (Jamie Foxx) sul quale cade la responsabilità di indagare su un devastante attentato contro un centro residenziale di Riad abitato da americani impiegati nell’industria petrolifera. A firmarlo sono state le cellule di Abu Hamza, capo di Al Qaeda nella penisola arabica che porta lo stesso nome del predicatore jihadista arrestato da Scotland Yard dopo gli attentati del 2005 a Londra.
La dinamica dell’attacco ripete le tecniche di Al Qaeda: terroristi-kamikaze che passano i controlli con le divise di agenti sauditi, un’autoambulanza trasformata in autobomba e centinaia di morti attorno a un enorme cratere. Le vittime sono in gran parte americane e tocca all’Fbi indagare, ma si trova di fronte ad un duplice muro di gomma: prima il Dipartimento di Stato, che non vuole mettere a rischio il rapporto privilegiato con i sauditi, e poi le autorità di Riad che non vogliono neanche far atterrare l’aereo con a bordo gli agenti dell’Fbi. Ma il team ignora le pressioni politiche, rifiuta i compromessi investigativi, si comporta come se l’Arabia Saudita fosse il Far West e riesce a mettere piede a Riad, dove si trova di fronte alla rete di molteplici complicità che lega l’apparato di sicurezza nazionale ai terroristi di Al Qaeda. Poliziotti che fanno il doppio gioco, indagini ostacolate da inefficienza e pregiudizi anti-occidentali, interi quartieri roccaforti della Jihad, una popolazione che teme il re quanto Abu Hamza e la corte wahabita asserragliata in palazzi trasformati in fortezze, in una cornice di omertà popolare. Lo spettatore vede sullo schermo un’Arabia Saudita trattata come alleata dal governo americano ma in realtà accogliente con i jihadisti fino al punto da consentirgli di infiltrarsi nella sicurezza.
E’ un groviglio dal quale il team dell’Fbi riesce a liberarsi grazie all’aiuto di un coraggioso colonnello saudita - interpretato Ashraf Barhom - e di un principe che vede negli americani solo uno strumento per conservare potere e ricchezza. Liberi dai lacci sauditi, i quattro agenti devono fronteggiare a più riprese un imbelle diplomatico americano che vuole farli andare via a tutti i costi ma la scelta è di ignorarlo, lanciandosi in una caccia al terrorista nei quartieri di Riad in mano ai seguaci di Osama bin Laden.
E’ in quest’ultima parte che Peter Berg, regista di «Kingdom», descrive il popolo della Jihad senza veli: Abu Hamza è un anziano signore che cammina male ma tiene a instillare l’amore della morte nei nipoti più piccoli, le sue mogli sanno tutto ma tacciono perché fedeli alla regola della sottomissione assoluta, i figli adolescenti sparano alle spalle dei poliziotti sauditi considerati infedeli ed i fedelissimi miliziani sequestrano l’unico agente dell’Fbi con una nonna ebrea tentando (invano) di decapitarlo con una scimitarra di fronte ad una telecamera digitale.
Quando l’unica donna del team Fbi, Jennifer Garner, cede ai sentimenti e tratta umanamente una famiglia saudita spaventata dalla sparatoria deve ricredersi trovandosi di fronte ad una bambina che gioca con le stesse biglie usate per confezionare la bomba dell’attentato di Riad. Il pubblico ammutolisce quando vede le biglie, così come applaude quando Abu Hamza muore sotto i colpi del colonnello saudita, oramai membro a pieno titolo del team Usa. Alla fine ciò che resta negli spettatori sono le parole sussurrate dal capo terrorista al nipote, identiche a quelle che l’agente Fleury dice al suo team: «We’ll kill them all», li uccideremo tutti. Come dire: la fotografia di una guerra destinata a durare per generazioni, che Hollywood descrive a tinte forti per denunciare tanto le complicità saudite che le reticenze americane.
Le Forze Armate americane ritengono di avere inflitto negli ultimi mesi gravi perdite ad al Qaeda in Iraq, al punto da spingere alcuni ufficiali Usa a dichiarare vittoria sulla rete terroristica guidata da Osama bin Laden. Un punto di vista non condiviso, però, da alcune fonti di intelligence, che hanno chiesto di non sottostimare il nemico. Infatti, mentre la Casa Bianca e alcuni dei vertici militari stanno già progettando le nuove fasi della guerra, altri ufficiali Usa hanno avvertito sulla necessità di agire con cautela, evitando di prendere iniziative che potrebbero creare difficoltà a livello strategico e politico.

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