Giorgio non se la beve. Condoleezza Rice parla di Stato palestinese ? E' un tentativo di conseguire un successo diplomatico prima delle fine dell'amministrazione Bush. Una "presunta nuova priorità" .
Gli israeliani comunque solo "un documento vago e generico"e prendono "iniziative (...) assolutamente contrarie a qualsiasi ipotesi di accordo, come il recente esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese tra Gerusalemme est, Betlemme fino a Hebron, e la ripresa dei lavori di sbancamento a pochi metri dalla spianata delle moschee che, dopo tanti rinvii, ora stanno entrando nel vivo".
Dell'apertura di Olmert su Gerusalemme, nell'articolo di Giorgio non c'è traccia. Mentre le critiche a Israele sono del tutto ingiuste.
I lavori nei pressi della Spianata sono un problema solo perché la propaganda degli estremisti palestinesi gli ha resi tali: non minacciano in nessun modo lo status quo e sono necessari.
Gli espropri servono alla costruzione di una strada per i palestinesi in cisgiordania.
In ogni caso, per Giorgio la conferenza fallirà, e sarà colpa di Israele e dell'America come lo fu a Camp David.
Infatti, Abu Mazen non potrà che rifiutare la proposta israeliana.
Gliene sarà adossata la colpa come si fece con Arafat.
L'ipotesi che un leader palestinese abbandoni la volontà di vedere soddisfatte tutte le richieste della sua parte e si concentri sull'opportunità di far nascere uno Stato che non è mai esistito nella storia ( e dunque non ha affatto confini predefiniti) non sfiora minimamente Giorgio.
Per lui è naturale che i palestinesi continuino a uccidere e morire per i "confini del 67", per il controllo sul Monte del Tempio e per il "diritto al ritorno", cioè per la distruzione di Israele per via demografica.
Potrebbe anche rivelarsi un buon profeta, ma si può sperare di no. E dovrebbe sprare di no chiunque abbia a cuore le sorti dei due popoli.
Ecco il testo:
Ci servono un accordo israelo-palestinese e la creazione di uno staterello in Cisgiordania (e Gaza?) per poter finalmente sventolare la bandiera della vittoria in Medio Oriente dopo il tonfo iracheno e l’incerto confronto a distanza in atto con l’Iran. L’acqua alla gola dell’Amministrazione Usa, alla ricerca disperata di un «successo» diplomatico da poter esibire in chiusura del secondo mandato di George Bush, era fin troppo palese ieri nelle parole pronunciate a Ramallah dal Segretario di stato Condoleezza Rice sulla presunta nuova priorità americana in Medio oriente: la nascita dello Stato palestinese. «Crediamo che sia giunto il momento che i palestinesi abbiano un loro Stato - ha detto a Ramallah la Rice al presidente Abu Mazen - e questo nell’interesse dei palestinesi, degli israeliani e di tutta la regione». Ancora Rice: «Il governo degli Stati Uniti sinceramente ha cose più importanti da fare, che invitare delle persone ad Annapolis per farsi scattare una foto di gruppo». Il meeting, ha aggiunto, «dovrà essere serio e sostanziale», e il documento sui principi di un accordo che israeliani e palestinesi dovrebbero portare - il condizionale è d’obbligo viste le differenze abissali che esistono tra le due parti - affronterà le questioni fondamentali del conflitto «perché solo in questo modo il processo diplomatico può avere successo». Abu Mazen sorrideva ieri come un bimbo al quale hanno regalato un giocattolo nuovo, ma molti palestinesi (e israeliani) hanno fatto un salto indietro nel tempo, alla conclusione del mandato di Bill Clinton, alla fine del 2000, quando le necessità elettorali dei democratici portarono alla convocazione senza un’adeguata preparazione di quel vertice di Camp David destinato porre le basi non della pace ma di un nuovo scontro tra le due parti e della Seconda Intifada, grazie anche alla «passeggiata» di Ariel Sharon sulla Spianata di Al-Aqsa. Camp David si concluse con un fallimento totale che Clinton si affrettò ad addossare al presidente palestinese Yasser Arafat, colpevole di non aver accettato le «generose» proposte che avrebbe fatto in quei giorni il premier israeliano Ehud Olmert. L’incontro di Annapolis si concluderà alla stessa maniera, con Abu Mazen accusato di non aver accolto le «generose offerte» di un altro Ehud, quell’Olmert che passerà alla storia come il primo ministro israeliano costretto ad affrontare tre indagini penali allo stesso tempo? Le condizioni ci sono tutte. Olmert all’incontro in terra americana e alle dichiarazioni di principi - che lui chiama di «interessi» per sentirsi ancora meno vincolato - continua a imporre clausole e condizioni. A differenza dei palestinesi - che chiedono di inserire nella dichiarazione congiunta una tabella di marcia che fissi tra sei e otto mesi i tempi per la conclusione di un accordo sullo status definitivo dei Territori occupati - il premier israeliano preferisce un documento vago e generico, senza impegni precisi sui nodi del conflitto - Gerusalemme, profughi e confini dello Stato di Palestina - né un calendario di impegni. Abu Mazen ha denunciato ieri alcune iniziative del governo israeliano assolutamente contrarie a qualsiasi ipotesi di accordo, come il recente esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese tra Gerusalemme est, Betlemme fino a Hebron, e la ripresa dei lavori di sbancamento a pochi metri dalla spianata delle moschee che, dopo tanti rinvii, ora stanno entrando nel vivo. A poco più di un mese da Annapolis le posizioni sono talmente distanti, che lo stesso Dipartimento di Stato americano, attraverso fonti anonime, ha fatto sapere che la data del vertice potrebbe slittare ulteriormente.
Ugo Tramballi sul SOLE 24 ORE ci informa che Olmert "vorrebbe che il processo durasse un ventennio" o che l'apertura su Gerusalemme ha in realtà lo scopo di "affascinare le colombe" coalizione di governo.
Interpretazioni, e non fatti. E Tramballi non fornisce un solo motivo per prenderle in considerazione.
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