E' domenica, ci sia concesso fare qualche digressione che con gli argomenti abituali di informazione corretta non sono direttamente collegati. LA STAMPA di oggi, 14/10/2007, a pag.31, pubblica una pagina del libro di Gunther Grass in uscita in italiano ( " Sbucciando la cipolla ", Einaudi), nella quale racconta di essere stato militare nelle SS, una verità che aveva sempre nascosto. Accanto, nella stessa pagina, appare un commento di Gianni Vattimo, al quale non par vero di poter difendere Grass con le motivazioni che si possono leggere nel suo pezzo che riportiamo. Vattimo, il cui mentore filosofico fu Heidegger, che aderì al nazismo, non poteva evidentemente avere altre posizioni. Da parte di uno che sostiene che < Gaza è come Auschwitz > non ci si poteva aspettare altro che la giustificazione della scelta di Grass. Il quale aveva sì 17 anni, è vero che andò sotto le armi, ma scelse di arruolarsi nelle SS. E questo fa la differenza. In quanto a < rendere un po' meno incivile la nostra convivenza >, come scrive Vattimo, è lui che dovrebbe farsi un esame di coscienza, lui che si augura che < Ahmadinejad abbia al più presto l'atomica >. Dato che ha minacciato di cancellare Israele dalle carte geografiche, non è neanche il caso di chiedersi che uso ne farà. Ma questo non preoccupa l'allievo invecchiato di Heidegger.
Ecco il suo articolo:
La domanda da farsi, probabilmente, è sul perché queste «confessioni» del proprio passato, per lo più giovanile, nazista, quale che sia stata la misura della adesione (erano giovani soldati, che comunque dovevano fare il servizio di leva...), si moltiplicano proprio adesso e non sono arrivate prima. Non si può escludere che in alcuni casi di scrittori, artisti, politici, la confessione sia una maniera per ravvivare l’attenzione pubblica intorno a se stessi e alle proprie opere, insomma una operazione di marketing mediatico. (Un po’ come, qualche tempo fa, era diventato di moda confessarsi omosessuali).
Non è certo, almeno per alcuni di loro che conosciamo di più - come Günter Grass e, poco tempo fa, persino Habermas. Anche per lui, non si può ridurre tutto alla necessità di fare i conti con rivelazioni uscite contro il loro volere. Forse si tratta del fatto, del tutto fisiologico, che il tempo passato rende tutto meno difficile, le ferite nelle vittime o nei familiari sopravvissuti sono sempre più cicatrizzate, e lo stesso lavoro storico - anche senza arrivare agli estremi del revisionismo negazionista - rende meno perentori e severi i giudizi su quello che è accaduto.
C’entrerà anche il sempre più diffuso atteggiamento multiculturalista, con quel tanto di relativismo che esso implica? In questi giorni un tribunale tedesco ha persino riconosciuto a un violentatore di origine sarda le attenuanti «etniche e culturali», andando ben al di là dell’accettabile, ma certo anche in base a una tolleranza che non ci sentiamo di condannare nel suo fondo. Noi italiani, del resto, abbiamo abolito non moltissimi anni fa la legge che assolveva il «delitto d’onore», che più etnico e «culturale» non si può. A noi, come a tantissimi, il solo nome delle SS fa ancora orrore, mentre amiamo i film western e le storie alla Buffalo Bill, dove pure si trattava di uno sterminio, quello degli indios del NordAmerica.
Se abbiamo parenti tra i discendenti di quelle popolazioni, o ancora qualche ricordo personale e familiare delle malefatte naziste, abbiamo tutte le ragioni di non dimenticare, e di volere che nessuno dimentichi. Ma per evitare di perpetuare le faide - non solo di clan e di famiglia, anche di nazioni, razze, comunità religiose - quel che dobbiamo fare è riferirci solo alle leggi vigenti, quelle di oggi, si capisce, che non devono dimenticare le differenze di clima storico e anche di culture.
Oltre le leggi, non c’è che la sensibilità e la cultura personale, che non può ergersi a giudice definitivo e imparziale - ciò che nemmeno le leggi sono davvero, ma almeno riflettono una sensibilità attualmente condivisa. Contro la permanente tentazione di guardare alla storia con lo spirito vendicativo del giustiziere, l’imperativo cristiano del perdono non indica solo un dovere morale e religioso; è anche un precetto utile per rendere un po’ meno incivile la nostra convivenza.
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