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Il Manifesto Rassegna Stampa
12.10.2007 Boiccottare Israele e appellarsi alle sue leggi
due modi per combattere l' "entità sionista" ?

Testata: Il Manifesto
Data: 12 ottobre 2007
Pagina: 0
Autore: Michele Giorgio - Michelangelo Cocco
Titolo: «Modello Bilin, villaggi in rivolta contro il Muro -«Ora Israele ha paura del boicottaggio»»
Dal MANIFESTO del 12 ottobre 2007, un articolo di Michele Giorgio sugli abitanti di  alcuni villaggi palestinesi tra Gerusalemme e la Cisgiordania, che protestano contro la barriera di sicurezza e gli espropri. Naturalmente, Giorgio dimentica che senza il terrorismo (incluso quello contro i "coloni", che sono cittadini israeliani che devono essere protetti al pari di tutti gli altri) la barriera non esisterebbe.
Dimentica anche, in questo caso, che il "modello" di "Bilin", il villaggio palestinese che ha vinto un ricorso all' alta Corte israeliana, che ha imposto un cambiamento nel tracciato della barriera, dimostra che i palestinesi hanno in Israele metodi legali e non violenti per difendere i loro diritti e i loro interessi.

Ecco il testo:


Munzir Hamad la sua casa vuole ricostruirla, per la terza volta. «Non ho i soldi ma lo farò, anche se loro (gli israeliani) verranno a buttarmela giù di nuovo», dice abbozzando un sorriso che somiglia più a una smorfia di dolore. Accompagnate da un bulldozer, nel dicembre scorso cinque jeep militari sono entrate ad Ein Jobeh, un sobborgo di Walaje (Betlemme): due ore dopo la famiglia Hamad non aveva più un tetto. «Abbiamo provato a resistere, ma i soldati ci hanno portato via con la forza. Siamo riusciti a salvare ben poche cose, ora viviamo a casa di parenti», ricorda Hamad. A rischiare la stessa sorte ora sono i familiari che lo ospitano e gli altri abitanti di questo minuscolo agglomerato.
Ein Jobeh non è riconosciuto dall'autorità israeliana e, soprattutto, è «colpevole» di essere troppo vicino al muro che in questo punto, secondo i piani israeliani, deve recidere totalmente i legami economici, sociali e politici tra Gerusalemme Est (la zona araba occupata nel 1967) e la Cisgiordania meridionale. I pochi abitanti di Ein Jobeh condividono lo stesso destino dei dieci villaggi del distretto di Betlemme - Beit Jala, Walaja, Battir, Umm Salamuna, Beit Ummar, Surif, Al-Jaba, Khader e altri - che hanno perduto o stanno per perdere le loro terre, confiscate per la costruzione del muro e degli insediamenti colonici israeliani di Efrata e di Migdal Oz.
Se la lotta della gente di Bilin, ad ovest di Ramallah, è il simbolo della resistenza passiva e pacifica alla barriera che (nonostante sia stata condannata dell'Alta Corte di Giustizia dell'Aja) lo Stato ebraico sta completando in Cisgiordania, la battaglia avviata nei mesi scorsi da Umm Salamuna, Walaje e altri villaggi esprime la volontà di migliaia di palestinesi tra Gerusalemme e Betlemme di respingere con tutte le loro forze un destino profondamente ingiusto. Ogni venerdì, mentre dozzine di attivisti internazionali e israeliani raggiungono Bilin per la consueta manifestazione contro la barriera (una recente sentenza della Corte Suprema israeliana ha ordinato all'esercito di restituire al villaggio parte delle terre confiscate), molte altre decine di pacifisti si recano a Umm Salamuna e Walaje.
«Nelle ultime settimane la nostra attività è stata rallentata dai ritmi imposti dal Ramadan (il mese in cui i musulmani digiunano dall'alba al tramonto) ma la lotta non conosce soste. Dobbiamo difendere le nostre terre e la nostra esistenza», spiega Amr, leader del comitato popolare di Walaje, villaggio totalmente prigioniero dell'esercito israeliano: «Ci sentiamo in gabbia, non solo non abbiamo la possibilità di andare nei campi, ma la nostra vita è nelle mani dei soldati, come in una prigione di massima sicurezza». A fine settembre sette abitanti sono stati feriti dalla guardia di frontiera israeliana durante una marcia contro il muro. Sfidando le restrizioni, i dimostranti hanno raggiunto le aree confiscate, letto proclami contro l'occupazione e rivolto appelli alla Comunità internazionale dal punto dove 1.800 alberi d'olivo sono stati sradicati per lasciare spazio ai bulldozer che spianano tutta l'area, permettendo l'avanzata del muro. La carica della guardia di frontiera è scattata mentre i manifestanti, sventolando bandiere palestinesi, stavano tornando a casa.
A pochi chilometri di distanza, verso Beit Sahur, i 200 abitanti di al-Numan, un villaggio spaccato in due dal muro, chiedevano libertà di movimento e di poter vivere di nuovo insieme. Nel 1967 Israele ha annesso la terra di al-Numan a Gerusalemme, ma i suoi abitanti, per motivi oscuri, hanno ricevuto la carta di identità della Cisgiordania e questo ha reso la loro esistenza un incubo: ora sono intrappolati tra Gerusalemme, in cui non possono entrare essendo della Cisgiordania, e il muro che li divide dal resto dei Territori occupati.
Il loro unico collegamento con il resto del mondo è attraverso un posto di blocco militare. Per andare a scuola, al lavoro e comprare il cibo dipendono interamente dai soldati israeliani. E per loro il futuro si annuncia persino più tragico. L'espansione dell'insediamento colonico di Har Homa e l'anello stradale previsto attorno a Gerusalemme costeggeranno il villaggio da ovest a est, causando la demolizione di molte case. Gli abitanti di al Numan hanno fatto tutto quello che potevano per resistere e si sono appellati anche alla Corte Suprema israeliana. La speranza è che i giudici emettano una sentenza in linea con quella di Bilin, ma le possibilità sono ridotte al minimo, a causa della vicinanza del villaggio a Gerusalemme Est dove i progetti israeliani sono ripresi con maggior vigore, specie nella zona E1, vicina alla megacolonia di Ma'ale Adumim, sulla strada che porta alla Valle del Giordano.
«Un tunnel, sotto la superstrada n. 60, che collega le colonie ebraiche della parte araba di Gerusalemme a quelle di Hebron, è un altro dei progetti che gli israeliani stanno realizzando in questa zona. Hanno già confiscato otto ettari di terre di Battir, Beit Jala e Khader - continua a raccontare Amr -. Una volta che il tunnel sarà completato, tutti gli altri passaggi verranno chiusi e 20mila palestinesi potranno lasciare i loro villaggi attraverso un unico posto di blocco.
Al-Khader, in particolare, verrà isolato dai suoi frutteti che si ritroveranno sull'altro versante del muro». Altrettanto amara è la sorte di Nahallin, Battir, Husan, Wadi Fuqin e, appunto, Walaje, che oltre a diventare ghetti isolati, si vedranno espropriare 40 ettari destinati all'espansione della colonia di Betar Illit. In totale sono 700 gli ettari di terra palestinese tra Gerusalemme Est, Betlemme e Hebron sui quali dovrà passare il muro, mentre una nuova strada per coloni correrà parallela a quella esistente, collegando gli insediamenti di Gush Etzion a Gerusalemme. Altri 700 ettari subiranno gli effetti della costruzione della barriera: aree militari, chiusure, campi coltivati isolati, movimenti limitati al minimo per i civili. Sono 45 invece gli ettari che diventeranno un'«area di sicurezza» intorno alla colonia di Karme Tzur che, secondo fonti palestinesi, verrà dotata di una recinzione elettrificata. Un portavoce di Peace Now ha spiegato che, sulla base di una decisione presa dal governo israeliano il 20 febbraio 2005, il muro sarà «doppio» nell'area di Gush Etzion, «delicata» perché a pochi chilometri da Gerusalemme. In sostanza sorgerà una barriera occidentale lunga 17 km ed un orientale di 41 km. Che dovrebbe penetrare per dieci chilometri all'interno della Cisgiordania, creando una enclave di 70 chilometri in cui rimarranno intrappolati i 20mila palestinesi di cui parlava Amr.
L'obiettivo è quello di assorbire in Israele 10 insediamenti ebraici (circa 50mila coloni) - Beitar illit, Har Gilo, Efrat, Elazar, Neve Daniel, Migdal Oz, Kfar Etzion, Rosh Zurim, Bat Ayin e Alon Shvut - e farli diventare «area metropolitana» di Gerusalemme. Un progetto enorme che spiega fin troppo bene cosa il governo Olmert intenda realmente quando parla di «compromesso» con l'Anp di Abu Mazen sulla Città Santa. Ai palestinesi della loro futura capitale non andranno che pochi rioni periferici (ma densamente popolati) collegati da una sola strada a Ramallah, mentre le colonie di Atarot (nord), Gush Etzion (sud) e Ma'ale Adumim (est) segneranno i nuovi confini ufficiali di Gerusalemme sotto sovranità israeliana.

Michelangelo Cocco intervista Omar Barghouti, fondatore della Campagna per il boicottaggio accademico e culturale d'Israele, che promuove l'iniziativa razzista criticata anche da Sari Nusseibeh, rettore dell'università palestinese Al Quds.
Durante l'intervista viene data per scontata la menzogna che Israele sia un regime di apartheid.

Ecco il testo:


«Non può essere attuato, perché sarebbe illegale». Lo University and college union (Ucu) britannico il 28 settembre scorso ha bocciato il boicottaggio accademico contro Israele. Dopo che nel suo congresso di maggio era passata una mozione per far circolare e discutere l'iniziativa, promossa dai palestinesi, il sindacato che rappresenta oltre 120mila persone (tra cui docenti, ricercatori, bibliotecari) ha fatto marcia indietro: «Sarebbe illegale fare appello, direttamente o indirettamente, a una simile misura punitiva nei confronti di istituzioni».
I fautori del boicottaggio contestano la «complicità» delle istituzioni accademiche nell'occupazione militare, oltre a una serie di episodi. L'Università di Haifa, ad esempio, nel 2005 invitava gli studenti provenienti dall'estero «a non viaggiare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Evitare, se possibile, le città arabe all'interno d'Israele». Più recentemente il governo ha costruito un ateneo nella colonia di Ariel, contribuendo a rendere permanente l'insediamento, in territorio palestinese e illegale per il diritto internazionale.
Subito dopo l'approvazione della mozione, il premier Olmert aveva istituito una task force governativa anti-boicottaggio. A mettere in chiaro la posta in gioco era stato il ministro degli esteri, Tzipi Livni: «Chiunque promuova un simile boicottaggio deve sapere che ha un prezzo. Abbiamo l'obbligo di prevenire l'espansione del fenomeno». In Gran Bretagna sono infatti in piedi altri boicottaggi anti-israeliani.
Contro quello accademico si sono mobilitati, tra gli altri, Scholars for peace in the Middle East - un'organizzazione filo-israeliana che è riuscita a raccogliere le firme di 10mila docenti contrari al boicottaggio - e 32 premi Nobel. Alla fine tra chi, come l'ex combattente sudafricano Ronnie Kasrils, ha indicato nella lotta contro l'apartheid un modello per i palestinesi, e chi, come il docente di Harvard Alan Dershowitz, si è battuto strenuamente contro l'iniziativa, hanno avuto la meglio questi ultimi. Omar Barghouti però riesce a guardare all'intera vicenda con ottimismo: «È la prova che il governo israeliano ha paura del boicottaggio» sostiene il fondatore della Campagna per il boicottaggio accademico e culturale d'Israele (Pacbi, www.pacbi.org) che abbiamo intervistato durante la sua visita alla redazione del manifesto.

La decisione dell'Ucu rappresenta una sconfitta per la vostra campagna, non crede?
Sì, è una sconfitta, un ribaltone. Spero però che sia una marcia indietro temporanea, perché va contro il principio stesso della libertà accademica: capovolgendo la decisione precedente, la Ucu ha detto ai suoi membri che, su un problema così rilevante come il boicottaggio d'Israele, è illegale discutere. D'altro lato la decisione ha mobilitato molti docenti - anche quelli contrari al boicottaggio - per la libertà accademica: non ci appoggiano sul boicottaggio, ma credono sia indispensabile confrontarsi.

Vi hanno battuti con un'azione coordinata di media, ministri, premi Nobel, associazioni. Voi non avete saputo mettere in moto nulla di simile.
Siamo molto più deboli della lobby filo-israeliana. Ma, in questo momento, non è uno svantaggio. Israele si sta comportando come un elefante in una cristalleria. Il sionismo ha subìto una trasformazione storica: fino agli ultimi anni, specialmente nei confronti dell'Occidente, agiva tentando di persuaderlo dei suoi obiettivi. Ora pone accademici, intellettuali e media di fronte a un'alternativa: seguire la linea o essere puniti. Alla fine questo modo di agire andrà a nostro vantaggio, perché Israele perderà la battaglia per «conquistare i cuori e le menti».

Nel 2005 un altro sindacato britannico, l'Aut, fece marcia indietro sul boicottaggio accademico. Non lo trova strano nella Gran Bretagna che si mobilitò contro l'apartheid in Sudafrica?
I nostri compagni sudafricani ci ricordano che il loro appello per il boicottaggio istituzionale fu lanciato negli anni '50 e il mondo iniziò a praticarlo trent'anni dopo. Gli alti e bassi non riflettono un cambiamento nell'opinione pubblica: quando perdiamo è solo per il risultato di intimidazioni da parte della lobby, che ora agisce allo scoperto: come il professor Alan Dershowitz di Harvard che ha minacciato la rovina professionale ed economica degli accademici britannici qualora avessero votato per il boicottaggio. Ma sono andati troppo oltre negando il dibattito in una società democratica come quella britannica.

Gli oppositori del boicottaggio accademico sostengono che danneggi la libertà del pensiero, la cultura.
Un'accusa falsa, basata su false premesse. Lanciato nell'aprile 2004, l'appello palestinese al boicottaggio è rivolto contro istituzioni, non verso gli individui. Nessuno vuole proibire agli accademici israeliani di esprimere ciò che pensano. Le istituzioni universitarie israeliane sono complici del crimine d'occupazione che ci nega la libertà di movimento, di ricevere un'educazione adeguata, di vivere. Perché nessuno discute delle libertà palestinesi, tutte violate?

Cosa chiede alla società civile italiana?
Di boicottare al livello più semplice: non acquistate prodotti israeliani nei supermercati. Israele vende all'Europa prodotti agricoli per miliardi di dollari. Se non li comprerete, punirete Israele economicamente e politicamente. Secondo: le istituzioni italiane dovrebbero boicottare quelle israeliane per la loro complicità nell'occupazione.

Il confronto tra i due articoli si presta a una riflessione ulteriore. Sul fatto che da un lato contro le decisioni del governo israeliano vengono messe in atto proteste che si appelano alla legalità israeliana, nello stesso momento in cui una ben orchestrata campagna propagandista dipinge il paese come un sistema razzista che dovrebbe essere considerato un paria dalla comunità internazionale.

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