Educazione e giudaismo. Un dialogo pedagogico”
A cura di Massimo Giuliani
Morcelliana Euro 7,00
“Scholem non è più di moda in Israele”, si è sentito rispondere, un paio di anni fa, un collega dell’Università ebraica di Gerusalemme, quando ha proposto un corso sul grande storico della qabbalah. Fuggevolezza della gloria mondana.
Certo è che il declino della popolarità post mortem è spesso inversamente proporzionale alla dittatura intellettuale esercitata in vita. Per oltre cinquant’anni, Gershom Scholem ebbe un influsso straordinario sulla vita culturale israeliana. Fu, tra l’altro, presidente dell’Accademia delle scienze e protagonista del trapianto degli studi umanistici dall’Europa allo Stato ebraico. E forse proprio qui, nel rapporto della società israeliana contemporanea con le radici europee, vanno cercate le ragioni dell’eclisse del terribile Scholem.
Ruvido di carattere e intransigente, lo storico impersonava pregi e difetti dell’ebraismo “yekke”, costretto dalle persecuzioni ad abbandonare
la Germania.
Per
parecchi decenni, questa élite ashkenazita ha rappresentato il nerbo culturale d’Israele, ma poi l’ascesa demografica dell’elemento sefardita e le ondate migratorie dall’ex Unione Sovietica ne hanno alterato il predominio.
Nell’accademia, come nella vita politica, l’Israele laica e utopica di Scholem si è a poco a poco trovata sulle difensive, costretta a fare i conti con l’estremismo religioso e con un accentuarsi delle disparità sociali.
Per comprendere le contraddizioni odierne, vale la pena ripercorrere le pagine dello stesso Scholem, non solo quelle famose dei suoi saggi, ma anche i testi meno noti, che lasciano trasparire le inquietudini e la proverbiale impazienza del vecchio ebreo berlinese. Tra questi, Morcelliana propone un’intervista sull’educazione al giudaismo che lo storico concesse nel 1971.
Il tema è cosa si debba, e si possa, insegnare sul giudaismo. “Credo in Dio, ma sono un religioso anarchico”, esordisce Scholem, così che l’interlocutore si trova subito nella scomoda posizione di chi annaspa di fronte a un paradosso. Ma insomma, che significato ha, per un ebreo, essere allo stesso tempo credente e anarchico? Il professore ha una risposta tagliente: “Non posso giudicare questo o quel fenomeno del passato e decidere chi abbia ragione e chi torto”.
Per tutta l’intervista, il concetto ritorna instancabilmente: l’unica bandiera del giudaismo è quella della molteplicità. E più lo storico rovescia le carte, e impara a decifrare il palinsesto della storia, più le voci si fanno discordanti e complesse. Invece che a un unico fenomeno dai contorni definiti, il filologo si trova di fronte a rivoli diversi, dimenticati per comodo o per semplice arbitrio del divenire.
Secondo Scholem, insomma, nel saldo finale del giudaismo, i perdenti, i settari e gli eccentrici contano quasi quanto l’ortodossia istituzionale. Erano più ebrei i sadducei, spazzati via dalla distruzione del Tempio, o i farisei, da cui nacque il giudaismo rabbinico? Per capire la spiritualità ebraica, è più utile studiare lo pseudo-messia Shabbetai Tzevi o i pareri giuridici dei maestri del Talmud? La risposta è che non c’è risposta, anche se s’indovina che le simpatie di Scholem vanno ai marginali e agli illusi.
Siamo ancora profondamente calati nella passione, tutta novecentesca, per quella forza dell’impossibile che Scholem condivideva, per esempio, con l’amico Walter Benjamin. “A mio parere, il giudaismo comprende aspetti utopici, che non sono ancora stati scoperti”, possiede cioè una straordinaria “forza vitale”, che si nasconde in un progetto futuro, sempre vagheggiato e mai completamente raggiunto.
Quello che colpisce maggiormente, in questo dialogo di oltre trentacinque anni fa, è la capacità di cercare il nuovo nel vecchio, il candore con cui Scholem sapeva giocare a rimpiattino con la storia, aspettandosi dagli antichi sorprese e sfide.
Ma, a quanto pare, l’utopia non è più di moda, e purtroppo non solo a Gerusalemme.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore